I mercati sono entrati in quella che in gergo si chiama “correzione”. Il 2018 è iniziato con il botto con tutti gli indici di Wall Street (e in Europa il Dax 30 tedesco) che hanno aggiornato nuovi massimi storici. Dal 25 gennaio però il vento è cambiato all’improvviso. La goccia che ha fatto traboccare i listini è stato il dato sui salari Usa, cresciuti più del previsto. Una buona notizia che però - alimentando aspettative di un’inflazione eccessiva e imprevista - si è rivelata la miccia che ha innescato l’attuale fase di vendite.
Da allora, tra alti e bassi, la capitalizzazione delle Borse globali è scesa di quasi 6mila miliardi, scivolando a 81mila miliardi.
Mentre quella delle obbligazioni ne ha perso altri 1.000. In totale in una decina di sedute aperte agli scambi azioni e bond hanno perso quasi 7mila miliardi di valore.
In termini percentuali Wall Street ha perso il 9%, Piazza Affari il 6% e Francoforte l’8%, Shanghai l’11 e Tokyo il 10%. Siamo ancora lontani dalla soglia del -20% che rappresenta - nella convinzione degli operatori e più o meno nelle statistiche - il livello oltre il quale il ribasso si trasforma da una “correzione tecnica” in una sorta di “vendi e scappa”.
Di questo secondo e brutto scenario non ne sono al momento così convinti gli analisti. Deutsche Bank spiega che «dopo l'inizio anno molto forte dei mercati azionari globali, la correzione attesa da tempo è avvenuta in modo molto brusco. L'equity americano è stato l'epicentro del sell-off».
La volatilità resta ancora sopra la media. L’indice Vix che la misura (conosciuto anche come l’indice della paura) è a quota 32, lontano dagli 80 dei tempi del crack di Lehman Brothers (2008) ma altrettanto molto distante dai livelli - tra 10 e 15 punti - che indicano un clima finanziario sereno.
La buona notizia sull’aumento dei salari Usa si è rivelata una cattiva notizia per i mercati specchiando l’immagine di un mondo della finanza cinico paradossalmente ostile alle notizie che invece dovrebbero rallegrare la gente comune (aumento degli stipendi). Dopodiché gli algoritmi finanziari - che oggi mettono lo zampino in oltre il 60% degli scambi - hanno fatto la loro parte nel rendere molto violenta questa correzione (Wall Street che perde il 9% in poco più di una settimana è un fenomeno davvero raro nell’ultimo secolo).
Tuttavia i fondamentali economici restano buoni. Quest’anno solo sei Paesi su 206 dovrebbero chiudere in recessione, un record assoluto da decenni. Di fronte a un’economia che cresce è francamente difficile aspettarsi un’ecatombe finanziaria perché dopo alti e bassi c’è un punto in cui i fondamentali tornano a farla da padrone.
Tuttavia quanto osservato in questi 10 giorni pazzi sui mercati ha lasciato il segno. Gli investitori, da nove anni assuefatti a performance crescenti senza particolari eccezioni, son tornati a respirare un clima di incertezza e tensione. Molti gestori ora sanno che i tempi belli - dove sale tutto senza grossa fatica - sono finiti. Per tornare a fare la differenza bisognerà essere bravi nello scegliere titoli e settori vincenti e scartare quelli più deboli, destinati ad accusare il colpo durante le fasi di correzione.
La percezione del rischio sta cambiando anche tra i piccoli risparmiatori, già da tempo spiazzati nello scegliere l’investimento giusto in un contesto di tassi bassi e azioni molto care.
Se gli ultimi anni della crisi hanno introdotto nel dizionario delle famiglie la parola spread ora rischia di entrare nel dibattito economico popolare un altro termine: volatilità. Nei prossimi giorni il grafico chiave da monitorare sarà quindi quello del Vix. Se non si ammorbidirà c’è il rischio che gli algoritmi tornino a vendere. A quel punto la soglia del -20% potrebbe pericolosamente avvicinarsi.
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