A distanza di dieci anni dallo scoppio della crisi finanziaria globale, le banche italiane ritrovano il sentiero condiviso della redditività. Merito, va detto, del miglioramento del ciclo economico, e del conseguente abbattimento delle rettifiche sui prestiti. Ma anche di una generalizzata capacità di sostenere i ricavi sfruttando la leva della commissioni. Se tutto questo si combina con la prosecuzione del taglio dei costi, si capisce come nel 2017 gran parte delle maggiori banche italiane (se si escludono i casi di Mps, Creval e Carige, alle prese con piani di rilancio) siano state in grado di accendere il motore dei profitti: nel complesso, infatti, i primi otto istituti hanno raccolto 10 miliardi (al netto dei contributi pubblici a Intesa e dei badwill di BancoBpm, Ubi e Bper), che si confrontano con il rosso da 11,2 miliardi del 2016. Un dato che scende invece a 6 miliardi considerando le perdite straordinarie annunciate ieri da Siena e Genova.
È una fotografia tutto sommato incoraggiante, quella che emerge dall’analisi condotta da Prometeia per Il Sole 24Ore sui dati preliminari appena diffusi. Non che il risultato fosse scontato, va detto. Il 2017 è stato del resto l’anno in cui il comparto si è tirato fuori dalle secche della crisi e ha portato in sicurezza i malati gravi del settore: da Mps alle quattro banche regionali, dalle Venete alle tre banche minori assorbite da Crédit Agricole Italia. A pagare il prezzo dei vari salvataggi, tra Fondo di risoluzione ad Atlante, è stata la parte “sana” del settore, oltre che gli azionisti azzerati delle banche. Certo lo Stato ha dato un contributo decisivo, come nel caso di Mps. Ma nel complesso l’aiuto statale ha avuto un impatto stimato in circa 13 miliardi, lo 0,8% del Pil, come ricordato recentemente dal governatore Ignazio Visco. Cifre più basse rispetto a quelle viste in Germania (227 miliardi, 7,2% del Pil) o in Spagna di 52 miliardi (4,6%).
I motivi del miglioramento
Insomma, pur in un contesto non banale, le banche italiane hanno messo la marcia in avanti. Le commissioni in particolare sono cresciute pressochè ovunque, facendo registrare un rialzo del 5%, a 21 miliardi. Abbastanza da compensare il calo del margine di interesse, sceso dell’1,3%, complice la contrazione dello spread sui prestiti. «Il margine di interesse è ancora in calo, anche se si sta stabilizzando - fa notare Giuseppe Lusignani, vice presidente della società di consulenza - mentre salgono molto le commissioni grazie al traino dei prodotti di risparmio e delle gestioni patrimoniali». Il vero game changer è stata però la riduzione delle rettifiche su crediti, pressochè dimezzate rispetto al 2016 (-15 miliardi). La differenza, va detto, risente del forte innalzamento delle coperture registrato lo scorso anno. Tuttavia è innegabile che il miglioramento del quadro economico ha fatto scendere l’ingresso a default dei prestiti, e questo a sua volta ha generato minori accantonamenti.
Le prospettive
E in prospettiva, che cosa accadrà al settore? Se è vero che dal 2018 il margine di interesse è destinato ad ampliarsi progressivamente anche grazie al ritorno alla crescita del credito e alla prevista normalizzazione dei tassi, è anche vero che il supporto delle commissioni non potrà durare a questi ritmi in eterno. «Il nuovo contesto normativo, dalla Mifid2 alla Psd2, potrebbe rendere meno profittevole il segmento dei prodotti assicurativi e del risparmio gestito», avverte Lusignani. Senza contare che anche l’andamento dei mercati, con i suoi possibili storni, rischia di incidere negativamente su questa voce.
Di positivo, invece, c’è che il costo del rischio è previsto in progresso: migliori condizioni macro si tradurrano realisticamente in una ulteriore riduzione del flusso delle svalutazioni sui crediti. Non che i problemi del settore su questo fronte siano finiti, ovviamente. La sfida più evidente sarà quella dello smaltimento dei crediti deteriorati. Secondo i calcoli di Prometeia, dopo aver ridotto lo stock di 53 miliardi nel 2017 (di cui 26 di Mps, e 17,5 delle Venete), i primi 10 gruppi per il prossimo triennio hanno annunciato riduzioni e recuperi di Npe per altri 47 miliardi. Di questi 26 circa sono di Intesa, 8,5 miliardi di Banco Bpm, 4 di Bper, 2,2 del Creval. Il pressing Bce per portare l’Npe ratio lordo nel breve termine al 10%, e del 5% nel medio termine,insomma, è forte. Ed eventuali perdite dovranno essere assorbite. Non solo. L’altra grande sfida riguarda l’ulteriore efficientamento del settore. Sotto il profilo dei costi gli istituti stanno facendo molto, come dimostra un taglio del 5% delle spese operative. Ma con un Roe atteso al 3,7% nel 2018, e del 5,8% nel 2021, il costo del capitale continuerà a rimanere più elevato. «Difficile pensare insomma - conclude Lusignani - che il comparto possa sfuggire al processo di razionalizzazione e di riduzione dei costi già avviato». E chissà che il consolidamento, a quel punto, non diventi il nuovo “mantra” per il settore.
ù.@lucaaldodavi
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