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Più petrolio, meno soia. Usa al tramonto come potenza agricola

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Più petrolio, meno soia. Usa al tramonto come potenza agricola

(Afp)
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Sempre più forti nell’energia, sempre più deboli in agricoltura. Gli Stati Uniti ormai estraggono più petrolio dell’Arabia Saudita, ma come potenza agricola sono in declino: il Brasile li ha superati da tempo nelle esportazioni di soia, mentre la Russia li ha scalzati dal trono di maggiori fornitori di grano.

La supremazia nel mais per ora resiste, ma il dipartimento dell’Agricoltura (Usda) avverte che la quota americana sul mercato globale è insidiata dai produttori latinoamericani (non solo il Brasile, ma anche l’Argentina)  e dall’Ucraina, al punto che nel giro di dieci anni rischia di scendere sotto il 30%. Ora è già scesa sotto il 40%, dal 70% di trent’anni fa.

Big Farm non è più forte come un tempo nemmeno a casa propria. Il reddito dei coltivatori è avviato a ridursi per il quinto anno consecutivo, prevede la stessa Usda, portandosi a 59,5 miliardi di dollari (-6,7%), il minimo dal 2006 e meno della metà rispetto al picco di 123,8 miliardi registrato nel 2013.

Un numero crescente di agricoltori sta gettando la spugna, cedendo i propri terreni per dedicarsi ad attività in altri settori. Altri, aspettando una ripresa che comincia a sembrare miraggio, continuano a indebitarsi: nell’ultimo trimestre del 2017 i prestiti bancari nel settore agricolo sono cresciuti del 51%, ai massimi da due anni, secondo la Kansas City Federal Reserve. Gli interessi hanno raggiunto in media il 4,5%, i più alti da 27 anni.

Il tramonto degli Usa sui mercati agricoli è frutto di una serie di fattori diversi, che si sono intrecciati nel corso degli anni. Quattro stagioni consecutivedi raccolti da record hanno gonfiato le scorte globali, deprimendo le quotazioni dei prodotti e rendendo sempre più agguerrita la competizione sui mercati internazionali. Le esportazioni sono state in generale favorite per lungo tempo da noli marittimi contenuti, che hanno aperto rotte inedite, consentendo ai produttori agricoli di sfidarsi su mercati un tempo considerati fuori dalla propria portata.

Gli Stati Uniti fino a poco tempo fa sono stati anche penalizzati dalla forza del dollaro, che li ha resi meno competivi,soprattutto rispetto a Russia e Brasile, le cui valute hanno invece attraversato periodi di estrema debolezza.

L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ha complicato ulteriormente il quadro. Il ritiro dalle trattative per la Trans-Pacific Partnership (Ttp) e la rimessa in discussione del Nafta potrebbero portare un ulteriore svantaggio agli Usa, a favore di concorrenti come il Canada, altro colosso dei cereali, che invece è coinvolto in entrambi i trattati di libero scambio.

Nel frattempo le guerre commerciali ingaggiate da Washington con la Cina rischiano di fare altri danni. Pechino, il maggiore acquirente di prodotti agricoli «made in Usa», ha avviato un’indagine formale anti-dumpig sulle importazioni di sorgo americano e per altri prodotti – ben più importanti – ha cominciato a orientarsi verso altri fornitori: a gennaio circa un quarto delle importazioni cinesi di soia sono arrivate dal Brasile, per un totale di 2 milioni di tonnellate (+720%), mentre gli acquisti dagli Usa – benché tuttora prevalenti a 5,8 milioni di tonnellate – sono diminuiti del 14%, riducendo al 67% la quota sul totale dall’88,5% di un anno prima.

«C’è preoccupazione», ha ammesso Jason Hafemeister, consulente dell’Usda, parlando con la Reuters. «Gli Usa esportano semi di soia in Cina per 14 miliardi di dollari l’anno, questo è un mercato molto importante».

Il Brasile ha strappato agli Stati Uniti il primato nella produzione di soia dalla stagione 2012-2013 e oggi è fonte di oltre il 40% delle esportazioni globali, contro il 10% circa di trent’anni fa.

La Russia è invece tornata a dominare il mercato del grano dalla passata stagione, dopo un’enorme progresso sui campi: Mosca è riuscita ad aumentare i raccolti del 60% in un decennio, fino a superare 85 milioni di tonnellate. L’export dovrebbe superare 45 milioni di tonnellate, ma solo perché per ora le infrastrutture di trasporto non permettono di fare di più: una sfida difficile da fronteggiare, non solo per gli Usa ma anche per l’Unione europea.

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