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Tim, nel piano del fondo Elliott c’è la rete in Borsa

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verso lo scontro in assemblea

Tim, nel piano del fondo Elliott c’è la rete in Borsa

(Afp)
(Afp)

All’assemblea Telecom del 24 aprile si prepara lo scontro secondo il più tipico dei film all’anglosassone e, al centro, c’è il destino della rete. Il fondo Elliott già in settimana dovrebbe partire con la proxy fight per ribaltare la governance dell’incumbent tricolore modellata “alla francese” da Vivendi, primo azionista col 23,94% del capitale ordinario che esercita l’attività di direzione e coordinamento sul gruppo. Elliott, gestito dal veterano attivista Paul Singer, chiederà l’appoggio degli investitori istituzionali - che hanno in mano i tre quarti del capitale ordinario e più dell’80% del capitale totale - per ottenere la la revoca dei cinque consiglieri non indipendenti nominati dalla media company che fa capo a Vicent Bolloré, vale a dire il presidente Arnaud de Puyfontaine, che è anche ceo di Vivendi, il vice-presidente Giuseppe Recchi (che ha comunque un nuovo incarico di ceo di Affidea ad Amsterdam), l’ad Amos Genish e i due manager francesi di Vivendi, il cfo Hervé Philippe e il capo del legale Frédéric Crepin.

Nessuna possibilità di accordo con Bolloré, fanno sapere fonti vicine al dossier, ma mano tesa, oltre che ovviamente al mercato, alle istituzioni italiane. Tant’è che la lista che sarà presentata dal fondo Usa - si apprende - conterrà solo nomi italiani. Tra questi non c’è quello dell’ex presidente Eni, Paolo Scaroni, che oggi è vice presidente della banca d’affari Rothschild, una posizione che non sarebbe compatibile con il profilo degli amministratori «completamente indipendenti» che Elliott vuole proporre.

A quanto risulta, allo stato, nella nuova offensiva Elliott è assistito da Vitale & co., come advisor finanziario, e dagli avvocati Alessandro Triscornia e Luisa Torchia. Nessun ruolo ha Rothschild che in passato ha lavorato anche Bolloré. Testimoni oculari sostengono di aver visto entrare ieri proprio Scaroni in una saletta riservata dell’Hotel Park Hyatt a Milano dove si trovava il finanziere bretone. Ma il manager, oggi banchiere, ha smentito all’Ansa l’indiscrezione e anche Bolloré ha fatto sapere che ieri non era nel capoluogo lombardo. Ma tant’è: è ovvio che la “minaccia” è presa sul serio e che entrambi i fronti si stanno organizzando in attacco e in difesa.

La questione non riguarda ovviamente solo i posti in cda, ma soprattutto una visione differente di governo societario e di strategie. Elliott vuole promuovere la public company, Vivendi vuole difendere il ruolo conquistato di azionista più pari degli altri. Sul destino della rete sono già emerse posizioni divergenti. L’ad di Tim, Amos Genish, ieri in conference call con gli analisti, ha ribadito che la Netco che si prepara a varare per trasferire la rete d’accesso (dalla centrale all’utente finale) avrà tempi di gestazione lunghi e sarà comunque posseduta al 100% da Telecom con un consiglio espresso «in maggioranza» dall’azionista unico. Dopodiché le condizioni dovranno essere discusse con l’Agcom, ma si aspetta che l’Authority abbia completato l’analisi di mercato in corso (conclusione prevista per giugno) per avere un quadro regolamentare più definito.

Il piano Elliott invece, a quanto risulta, prevede tempi più rapidi e soprattutto la quotazione della rete in Borsa (ma anche lo spin-off di Sparkle), con un azionariato in parte pubblico che sarebbe “automaticamente realizzato” se Open Fiber, la joint Enel-Cdp per la rete in fibra, si fondesse con quella dell’incumbent, come molti ritengono logico. Sulla fusione con Open Fiber Genish non ha voluto rispondere a un analista che glielo chiedeva, limitandosi a sottolineare l’importanza per Telecom dell’asset, che è integrato nel core business del gruppo.

Il piano al quale il fondo attivista sta ancora lavorando non sarebbe ancora sceso fino a questo punto di dettaglio, ma le opzioni sul tavolo per portare la rete in Borsa sono due. O la scissione, modello Ferrari che così si è staccata da Fca, sulla base di un piano che era già stato studiato in Telecom, ma mai attuato - e di cui «Il Sole-24Ore» ha dato conto il 30 luglio scorso - oppure l’Ipo che piacerebbe al ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda. La differenza è che nel primo caso Telecom resterebbe senza rete, forse con qualche tema di sostenibilità per la parte che resta, mentre nel secondo caso l’infrastruttura manterrebbe - occorrerebbe vedere in che misura - un legame con l’ex monopolista, che è tuttora il principale player del settore in Italia.

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