Il dato sull’occupazione americana di ieri ha messo d’accordo tutti gli investitori: ha dato una bella spinta agli indici azionari senza danneggiare troppo quelli obbligazionari, che non devono temere un balzo anomalo dell’inflazione.
I nuovi posti di lavoro creati a gennaio, infatti, sono stati molti di più di quanto pronosticato e confermano che il mercato del lavoro Usa è tonico. Però la pressione salariale è diminuita allo 0,1% dallo 0,3% di dicembre 2017. La spinta su base annua resta elevata (+2,6%), sebbene leggermente inferiore all’ultima rilevazione (+2,9%) che aveva segnato un record dal 2009.
Grazie alla statistica, Wall Street è partita di slancio (con tutti e tre gli indici in aumento oltre un punto percentuale) dando supporto ai listini europei e mettendo fine a una settimana complicata per gli investitori, che si devono muovere cauti tra elezioni, dazi, decisioni delle banche centrali.
I rialzisti, tuttavia, non si fanno prendere dall’ansia per il percorso a ostacoli e affrontano un problema alla volta, approfittando dei tempi morti per spingere le quotazioni.
In Europa, il nodo delle votazioni italiane è in sospeso fino al 23 marzo, quando si decideranno i Presidenti di Camera e Senato. La data sarà spartiacque per il test della stabilità politica tricolore, per capire come possa influenzare le velleità di crescita di Piazza Affari e il futuro dell’Eurozona.
Nel frattempo, le azioni di Milano hanno ripreso quota anche a fronte dei cali degli altri listini (+4% sul venerdì precedente), dopo che avevano subìto vendite precauzionali prima dell’appuntamento elettorale. La stessa fiducia è stata reiterata ai titoli di Stato e sui BTp a più lunga scadenza (ma non su quelli a breve termine) sono tornati gli acquisti. Una conseguenza è stata che lo spread sul Bund - il premio chiesto dagli acquirenti per preferire il BTp - si è mantenuto costante e in alcuni momenti si è ristretto.
A favore dei BTp ha giocato soprattutto l’esito della riunione della Banca centrale europea tenuta in settimana, che ha rimosso dal comunicato mensile il riferimento a un possibile incremento della sua manovra, ma ha attutito la portata restrittiva della decisione con le dichiarazioni nella conferenza stampa. Il presidente Mario Draghi ha ribadito che l’inflazione è ancora debole e ha precisato che è stata rivista al ribasso per il 2019 (proprio nell’anno deputato per un primo aumento dei tassi di interesse dal pavimento dello 0%). L’annuncio sul carovita ha sorpreso gli operatori, che si attendevano stime migliori. Tuttavia, l’atteggiamento morbido in favore dello status quo, fatto di sostegno agli strumenti finanziari e di liquidità abbondante, è stato ben gradito. Le obbligazioni hanno preso fiato e l’euro ha recuperato un po’ di competitività sul dollaro, con una toccata del cambio sotto 1,23. Così il pensiero della fine della politica monetaria espansiva si sposta più in là.
Della pausa della moneta unica ha tratto sollievo pure il listino di Francoforte, che di recente ha patito parecchio il suo inasprimento, aggravato dagli annunci dei dazi su acciaio e alluminio el presidente americano Donald Trump. L’esenzione dagli oneri sulle importazioni dei principali partner commerciali degli Stati Uniti (Messico e Canada, sempre che siano disposti a rivedere gli accordi bilaterali in essere) e ad altri non ben identificati Paesi amici, non leva il timore di prossime iniziative fastidiose di Trump per ingraziarsi l’elettorato.
La politica economica della Casa Bianca è un’altra asticella con cui si dovranno misurare i mercati internazionali. Almeno fino a novembre, quando il presidente Usa dovrà passare l’esame delle elezioni di metà mandato. Anzi, per via della sua imprevedibilità, la variabile Trump è forse una delle incognite più rilevanti per la valutazione delle società quotate che hanno respiro globale; anche di quelle a stelle e strisce, che un giorno sono favorite dalla riforma fiscale, e l’altro rischiano di trovarsi coinvolte in una guerra commerciale.
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