Dalla produzione alla distribuzione finale. Tutta la filiera dell’alluminio è stata travolta dalle sanzioni americane contro Rusal, con un impatto che rischia di minare l’industria alle fondamenta, creando difficoltà non solo in Russia, ma in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti.
Il punto debole del sistema potrebbe essere l’«ingrediente base» dell’alluminio primario, ossia l’allumina, un ossido ricavato dalle rocce di bauxite che negli ultimi giorni ha raggiunto valutazioni da primato, dopo acquisti da panico che hanno provocato rincari addirittura superiori a quelli del metallo finito al London Metal Exchange (Lme).
Il prezzo spot dell’allumina (fob Australia) è balzato a 556,67 dollari per tonnellata venerdì scorso, un livello che non era mai stato raggiunto da quando nel 2010 il Metal Bulletin ha iniziato le rilevazioni. In un solo giorno il rialzo è stato del 16,7% e dall’inizio di marzo sfiora il 60%.
Il nervosismo tra gli operatori è salito alle stelle quando Rio Tinto ha annunciato il ricorso alla clausola di forza maggiore in alcuni contratti. Il gigante minerario australiano rifornisce di bauxite la raffineria irlandese di Aughinish, controllata da Rusal, che è responsabile di un terzo della produzione di allumina dell’Europa occidentale (1,9 milioni di tonnellate).
Il gruppo di Oleg Deripaska è anche socio al 20% di una raffineria di Rio Tinto in Australia e rifornisce allumina ad altri impianti di Rio, che con Alcan è a sua volta tra i big mondiali dell’alluminio: un intreccio di relazioni che sta creando forte inquietudine, anche perché le sanzioni contro il gruppo russo sono arrivate in un momento molto delicato per il mercato.
Le preoccupazioni per l’allumina – di cui Rusal fornisce 10,6 milioni di tonnellate, il 6,3% dell’offerta mondiale – erano già cominciate a fine febbraio, con la frenata di Alunorte in Brasile. La più grande raffineria di allumina del mondo, da 6,3 milioni di tonnellate l’anno, ha dovuto ridurre del 50% la produzione su ordine della magistratura, che sta indagando su un caso di inquinamento.
La norvegese Norsk Hydro, che controlla l’impianto, da questo weekend ha dimezzato anche l’output della vicina fonderia di alluminio Albras (da 460mila tonn. l’anno). Da Oslo il ceo del gruppo, Svein Richard Brandtzaeg, rilancia l’allarme: «C’è carenza di allumina e ci sarà anche una carenza di alluminio se Rusal non troverà rapidamente altri mercati», ha detto alla Reuters. La stessa Norsk Hydro, avverte il manager, potrebbe tagliare la produzione di alluminio anche fuori dal Brasile se non risolverà presto la vertenza giudiziaria di Alunorte.
Il mercato riflette il nervosismo che si sta diffondendo sempre di più tra gli operatori. Anche le quotazioni dell’alluminio non smettono di correre, sull’onda delle ricoperture dei fondi, in un rally che al London Metal Exchange (Lme) è già passato alla storia come il più intenso dalla nascita del contratto nel 1987: il contratto benchmark ieri è balzato di oltre il 5%, spingendosi fino a 2.403 dollari per tonnellata, il massimo da settembre 2011. Da quando Washington ha annunciato le sanzioni, il rialzo sfiora il 20%.
Nei magazzini della borsa londinese sono entrate anche ieri partite di metallo di probabile provenienza russa, in parte compensate da ritiri di alluminio di altre origini, concentrati soprattutto in Malaysia. Le scorte nel complesso sono salite a 1,4 milioni di tonnellate (+15.100), ma un effetto ribassista sui prezzi potrebbe non manifestarsi presto.
Il mercato dell’allumino, al di fuori della Cina, era già in deficit prima ancora che gli Usa decretassero le sanzioni contro Rusal: il gap tra domanda e offerta secondo Ing sarebbe stato di 1,75 milioni di tonnellate nel 2018. Con i tagli di Norsk Hydro in Brasile si è già saliti a 2 milioni ed è possibile che anche Rusal dovrà in parte tirare il freno. A tappare i buchi sul mercato alla fine potrebbero essere le esportazioni dalla Cina, purché i prezzi internazionali restino abbastanza alti da compensare la penalizzazione dei dazi Usa. Una vera beffa per Donald Trump.
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