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Sugli Stati debiti per 61mila miliardi, ma meno esposti agli speculatori

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squilibri globali

Sugli Stati debiti per 61mila miliardi, ma meno esposti agli speculatori

Oggi gli occhi sono tutti puntati sulla Cina, che detiene 1.176 miliardi di dollari di debito pubblico americano. Dato che Donald Trump ha dichiarato guerra commerciale al Paese, il timore che Pechino possa “vendicarsi” vendendo titoli di Stato statunitensi si diffonde sui mercati finanziari. Ma il dubbio è che questo problema, in un mondo oberato da 61mila miliardi di debiti pubblici, possa capitare a qualunque altro Stato. Del resto quando un Paese ha troppi debiti, il rischio è che finisca ostaggio di investitori spregiudicati come accadde all’Italia durante la crisi dello spread del 2011. Oppure che quei debiti vengano usati - parafrasando Clausewitz - per continuare «la diplomazia usando altri mezzi». Come qualcuno teme possa fare la Cina nei confronti degli Stati Uniti di Trump.

Ma è davvero così? Gli Stati sono davvero sotto potenziale ricatto dei creditori? Sebbene questo timore sia giustificato (soprattutto alla luce dell’ennesimo allarme lanciato anche ieri dal Fondo monetario), la realtà è probabilmente meno nera per i debiti pubblici di quanto possa apparire: se si guarda chi detiene i titoli di Stato dei vari Stati, si scopre infatti che oggi sono in mani molto più stabili e meno speculative di qualche anno fa. È vero che i debiti sono aumentati, ma è anche vero che è più difficile che la speculazione li colpisca (come accadde all’Italia nel 2011) o che qualcuno li usi per rappresaglie diplomatiche. Per una ragione documentabile nei dati: sui debiti pubblici oggi ci sono più investitori stabili come banche centrali o istituzioni domestiche. Questo non significa che l’iperindebitamento non sia preoccupante. Significa però che questa montagna è meno vulnerabile sui mercati.

LA MAPPA DEI DEBITI PUBBLICI
% in mani nazionali ed estere. Miliardi di dollari

Meno speculatori
La prima ragione è legata alle politiche monetarie ultraespansive, che negli ultimi anni hanno portato le banche centrali di molti Paesi a comprare grandi porzioni di titoli di Stato del loro stesso Governo: nel mondo, le sei maggiori banche centrali detengono circa 20mila miliardi di titoli obbligazionari (in gran parte di Stato). Una gran fetta del debito pubblico globale è dunque nella pancia delle banche centrali nazionali.

La seconda motivazione che oggi aumenta la stabilità è legata al fatto che i Paesi più deboli, come l’Italia, la Spagna o il Portogallo, hanno una quota di gran lunga maggioritaria di debito pubblico in mani nazionali. Nel 2008 - secondo i dati raccolti da Bruegel - il debito pubblico italiano era per il 51,4% in mano a investitori non italiani. Questo è proprio ciò che ci ha penalizzato durante la crisi del 2011: gli stranieri tendono a scappare più velocemente in caso di turbolenza. Ma oggi la situazione è diversa: ormai solo il 36% del nostro debito pubblico è in mani internazionali. Il resto è nelle più stabili mani della Banca d’Italia (19%), banche, assicurazioni e fondi pensione italiani (39,8%) e altri residenti (5,2%).

E numeri simili per altri Paesi che in passato hanno attirato speculazione. Nel 2008 solo il 16% del debito pubblico del Portogallo era nelle mani di investitori nazionali, mentre oggi questa quota è salita al 57,2%. La Spagna nello stesso arco di tempo ha aumentato gli investitori domestici dal dal 52% al 57%, con punte però del 70% nella fase di crisi del debito. «Il caso di scuola è il Giappone, che ha il 90% del debito in mani nazionali - osserva Nathan Sheets, chief economist di Pgim (partner di Ubi Pramerica sgr) ed ex Sottosegretario al Tesoro degli Stati Uniti per gli affari internazionali -. Sebbene il Paese abbia un debito pari al 250% del Pil, questo fatto lo rende più stabile. Semplicemente perché gli investitori domestici non scappano in caso di difficoltà».

QUANTI DEBITI SONO ALL’ESTERO
Come è cambiata negli anni la quota di debito pubblica detenuta dagli investitori domestici e da investitori internazionali. Dati in percentuale

Riserve valutarie
C’è poi una terza motivazione che assicura una certa stabilità: i debiti pubblici che si trovano sempre più in mani estere sono quelli emessi da Paesi forti. I loro titoli di Stato non sono però in mano a speculatori, ma sono usati in gran quantità da banche centrali estere per costruire riserve valutarie. È il caso, oltre agli Stati Uniti, della Germania. Qualunque banca centrale che voglia avere riserve in euro o che voglia difendere il cambio nei confronti dell’euro acquista infatti Bund tedeschi. «Molte banche centrali dei Paesi emergenti comprano e detengono Bund tedeschi e Treasury americani perché vogliono ricostruire le riserve valutarie - spiega Joachim Fels, global economic advisor di Pimco -. Questi soggetti figurano come investitori esteri nelle statistiche, ma sono molto stabili». Anche per questo il debito tedesco è sempre più in mani internazionali: prima della crisi i Bund era in mani straniere per poco più del 40%, mentre ora la quota è salita fino a sfiorare il 60%. Ma non si tratta di speculatori.

E lo stesso discorso si può applicare agli Stati Uniti. «Le riserve valutarie sono stabili, e non sono mai usate dalle banche centrali con scopi di politica estera o per fare pressioni diplomatiche - osserva Sheets -. Se si guardano i dati, si scopre che tra il 2015 e il 2016 la Cina ridusse i titoli di Stato detenuti dalla banca centrale, ma lo fece solo per difendere lo yuan. Non mi aspetto certo che ora la Banca centrale cinese si metta a giocare con i titoli di Stato americani per rappresaglia diplomatica. Non avrebbe senso farlo: loro non vogliono far sprofondare i prezzi dei Treasury su cui sono investiti. Una mossa del genere farebbe male in primo luogo alla Cina». Anche perché apprezzerebbe lo yuan, il che è contro gli interessi di Pechino. Stessa opinione per Joachim Fels di Pimco.

C’è infine una quarta motivazione che offre maggiore stabilità ai debiti pubblici globali: «I Paesi emergenti in questi anni hanno ridotto le emissioni di debiti in valuta estera, privilegiando quelle locali - spiega Alessandro Terzulli, economista della Sace -. Per di più hanno aumentato le emissioni di debiti a tasso fisso. Questo li rende meno vulnerabili». Insomma: tanti debiti pubblici globali, ma meno instabilità.

I rischi globali
È questo un motivo sufficiente per stare sereni? No, la minore vulnerabilità finanziaria dei debiti pubblici non significa che non ci siano rischi. Anche perché oltre ai debiti pubblici, ci sono quelli di imprese e famiglie ormai cresciuti a dismisura: il totale (pubblico più privato) è arrivato al record di 164.000 miliardi di dollari. Cifra che allarma anche il Fondo monetario. Nathan Sheets è preoccupato per la crescita dei debiti privati in Cina (arrivati ormai al 220% del Pil). Vari economisti guardano con apprensione i debiti delle famiglie o delle imprese negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Canada o in Australia.

Ma anche i debiti pubblici preoccupano: ci sono fondi hedge che stanno attualmente speculando al ribasso sui BTp italiani per esempio. «In Italia c’è un grosso rischio politico e un enorme debito», spiega al Sole 24 Ore, pur preferendo l’anonimato, il fondatore di un fondo attualmente ribassista sul debito italiano. La Congressional Budget Office Usa continua a lanciare anche l’allarme sul debito pubblico statunitense: in dieci anni arriverà al 105% del Pil, livello vicino al record toccato durante la seconda guerra mondiale. Livello elevato se si considera che in Usa i debiti pubblici sono calcolati in maniera diversa rispetto all’Europa: il metodo europeo renderebbe la percentuale molto maggiore. E se ci fosse una recessione, il debito/Pil sarebbe destinato a salire ancora. Insomma: la maggiore stabilità è positiva, ma i debiti sono pur sempre debiti.

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