Nei quattordici anni durante i quali Sergio Marchionne ha guidato prima Fiat e poi Fiat Chrysler, il sistema mondiale dell’auto ha cambiato totalmente la propria configurazione. Nel 2004, quando Marchionne dovette in primo luogo assicurare la sopravvivenza del Lingotto, gli Stati Uniti erano ancora il primo mercato al mondo. Le gerarchia tra le case produttrici vedeva in testa General Motors, un colosso dai piedi d’argilla che però era forte soltanto a casa propria, negli Stati Uniti, perché per il resto perdeva dappertutto. Alle sue spalle c’era il confronto tra duellanti a distanza, portatori di specifici modelli di business: Toyota e Volkswagen.
Oggi lo scenario è irriconoscibile. Anzitutto i primati quantitativi significano assai poco, e poi perché mercati e prodotti hanno seguito una dinamica imprevedibile. La spinta tecnologica, dalle piattaforme elettriche alla guida autonoma, trasformando l’idea stessa di mobilità, sta indirizzando costruttori e progettisti a impegnarsi sul fronte della realizzazione di sistemi di mobilità complessa, che si proiettano fuori dei confini del settore dell’auto di una volta. Intanto, si è acceso un confronto fra aree continentali e tipologie di prodotto, che non esclude i colpi bassi dei dazi e delle tariffe, destinato a incidere sulle specializzazioni produttive nazionali.
Sergio Marchionne ha pilotato Fca lungo una traversata tempestosa in cui i punti di orientamento sono mutati spesso. Dopo la fase iniziale, quando l’imperativo era «primum vivere», ha colto come la grade crisi fosse una straordinaria opportunità per il suo gruppo. Il disegno di una multinazionale con tre poli – Fiat, Chrysler, Opel – era originario e ambizioso, proprio di un’impresa globale degna di questo nome. Ma i vincoli istituzionali di allora bloccarono sul nascere questa mossa.
Da allora Fca ha dovuto attendere ai propri fuochi con la legna che ha avuto a disposizione (con l’eccezione del momento in cui Marchionne sembrava pronto a lanciare il guanto di sfida a Gm, ma l’operazione si è arrestata sul nascere). Di qui la delicata e attenta partita che si è giocata nell’ultimo paio d’anni. Che ha un focus preciso nella scelta di puntare sul marchio Jeep per farne la punta di lancia di un gruppo che deve dosare con attenzione le sue risorse. In questo senso, Fca ha anticipato le scelte delle case americane più grandi di concentrarsi su Suv e pickup, come stanno facendo Gm e Ford. Inutile dire che la decisione di Marchionne ha incontrato il favore di Trump, che l’ha voluta leggere come una conseguenza della sua politica economica. Per un negoziatore dell’abilità di Marchionne questo può anche essere un modo di aggiudicarsi qualche altro spazio di manovra.
Il futuro del marchio Fiat, invece, è ancora quanto mai incerto, una volta demandata la sua sorte ai mercati europeo (dove non si guadagna) e latino-americano, sulle cui prospettive la prudenza è d’obbligo.
Rimane il discorso sul polo Alfa-Maserati, quello che tocca il nostro Paese. Da un lato, risulta congruente col quadro di un possibile nuovo modello di sviluppo italiano, quello imperniato su una ridefinizione di un «made in Italy» a tutto campo, dove si integrano qualità, design, immagine ma anche tecnologia. Un modello che per funzionare, ha bisogno del patrocinio, sullo sfondo, del grande marchio Ferrari. Dall’altro, occorrono più investimenti, più modelli, più capacità d’innovativa.
Le componenti appena delineate potranno continuare a convivere all’interno dello stesso perimetro di gruppo? Di primo acchito, la risposta sarebbe che, per dare loro respiro, occorrono intese e alleanze con altri gruppi. Ma forse questa è una condizione necessaria comunque, che cambi o no l’assetto di Fca. Chissà se a dipanare la matassa sarà Marchionne o quelli che verranno dopo di lui?
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