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L’allarme su Libia e Iran infiamma il prezzo del petrolio

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Wti sopra 70 dollari

L’allarme su Libia e Iran infiamma il prezzo del petrolio

(Reuters)
(Reuters)

L’Opec ha appena raggiunto un accordo per offrire più petrolio e già l’aumento di produzione, coordinato con la Russia, minaccia di rivelarsi insufficiente. Nelle ultime quarantott’ore la situazione in Libia è precipitata al punto che le forniture di greggio dal Paese (già quasi dimezzate) rischiano la paralisi. Gli Stati Uniti intanto si sono ulteriormente irrigiditi nei confronti dell’Iran, rivelando di voler azzerare le sue esportazioni di idrocarburi ancor prima dell’entrata in vigore delle sanzioni, il 4 novembre.

Il doppio colpo mette a rischio, nella peggiore delle ipotesi, un totale di 3 milioni di barili al giorno (l’export libico viaggiava il mese scorso intorno a 800mila bg, quello iraniano superava 2,2 mbg), mentre l’Opec – o meglio l’Arabia Saudita – ha promesso insieme a Mosca un milione di barili in più: un incremento che a malapena basta a fronteggiare le altre emergenze. In Venezuela l’output sta crollando e ci sono difficoltà produttive anche in molti altri Paesi, tra cui l’Angola, il Messico e più di recente il Canada.

Compensare le perdite potrebbe essere impossibile, ma Washington è già tornata a battere cassa: il segretario all’Energia Rick Perry ieri ha affermato che l’aumento di produzione deciso dall’Opec Plus è «un po’ inferiore» alle necessità del mercato.

Le quotazionidel barile si sono infiammate dopo gli ultimi sviluppi, riportando il Wti sopra 70 dollari per la prima volta da due mesi: il riferimento americano ha chiuso in rialzo del 3,6% a 70,53 $, mentre il Brent è balzato a76,31 $ (+2,1%).

Non sono servite a rassenerare gli animi le indiscrezioni secondo cui Riad avrebbe già aperto i rubinetti, avviandosi – dicono fonti Bloomberg – a estrarre ben 10,8 mbg a luglio, un record storico, che rappresenterebbe un incremento di 800mila bg rispetto ai livelli ufficiali di maggio.

Altri rumor indicano che gli Usa vorrebbero chiedere uno sforzo maggiore anche dalla Russia, magari in cambio di un parziale sollievo dalle sanzioni (il ministro Alexandr Novak è a Washington, ospite dello stesso convegno a cui ha partecipato Perry).

È stato il caso Iran ieri ad aver innescato la reazione più forte sui mercati petroliferi, con un immediato strappo al rialzo dopo che un funzionario del dipartimento di Stato Usa ha affermato che la Casa Bianca non intende esonerare nessuno dalle sanzioni e che si aspetta uno stop immediato agli acquisti di greggio da Teheran. A questo scopo sono in programma colloqui con Cina, India e Turchia, per aiutarle a trovare «fornitori alternativi».

Gli iraniani comunque si aspettavano la linea dura: «Non penso che Trump concederà esenzioni a nessuno», aveva detto il ministro Bijan Zanganeh a margine del vertice Opec.

Il vero colpo di scena, a prescindere dalle reazioni del mercato, è avvenuto in Libia, dove il generale Khalifa Haftar, capo del Libyan National Army (Lna), ha riconquistato i porti di El Sider e Ras Lanuf, al centro di scontri da una decina di giorni, ma invece di consegnarli alla National Oil Company (Noc) ufficiale – come aveva fatto nel 2016, consentendo una netta ripresa delle attività petrolifere – stavolta li ha affidati al controllo dell’«altra Noc», quella che ha sede a Bengasi, considerata un’entità illegale da Tripoli e dalle Nazioni Unite.

Oltre a El Sider e Ras Lanuf – tuttora bloccati e danneggiati, con un conseguente taglio della produzione di almeno 450mila bg – le forze di Haftar affermano di aver incaricato la Noc di Bengasi anche del traffico dagli altri terminal della Cirenaica, ossia Brega e Zueitina, che per ora sembra continuino a funzionare regolarmente, e del porto di Hariga, al confine con l’Egitto, per una capacità di esportazione totale di 800mila bg. Non basta. Secondo un portavoce del Lna Bengasi avrebbe ora il controllo di tutti i giacimenti, gli oleodotti e ogni altra infrastruttura nella cosiddetta Mezzaluna del petrolio.

La sfida non è caduta nel vuoto. Tripoli si è appellata all’Onu perché (come era accaduto nel 2016) «monitori e blocchi ogni vendita illegale di greggio». La Noc ufficiale a sua volta diffida dal rifornirsi da «istituzioni parallele», minacciando di rivalersi con «ogni possibile azione legale».

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