Non sono solo le difficoltà di Turchia e Argentina a riaccendere i riflettori degli investitori sui rischi legati agli investimenti nei titoli dei mercati emergenti. Il Sudafrica è tornato in recessione con pesanti ripercussioni sul rand, la valuta locale. In Brasile soffre il real con le elezioni a mò di cappio. In Indonesia la rupiah è ai minimi da vent'anni e anche le Filippine sono in difficoltà sul balzo dell'inflazione.
Tentare di migliorare la performance dei propri portafogli inserendo una buona dose di investimenti “esotici” sta diventando più rischioso. Anche diversi colossi internazionali del risparmio gestito possono subire pesanti perdite spiazzati da una crisi che per alcune economie emergenti sembrava inizialmente sotto controllo. Sul recente caso Argentina, per esempio, i fondi di Franklin Templeton, secondo i calcoli del Financial Times, hanno perso 1,23 miliardi di dollari e molti altri colossi del risparmio temono per la loro esposizione verso Buenos Aires. Pimco è il maggior obbligazionista del Paese, con posizioni da 5,3 miliardi di dollari a fine marzo. Ma anche BlackRock, Goldman Sachs AM e Fidelity siedono nella top five dei maggiori creditori. Si tratta di una crisi che ha molte similitudini tra Paesi, che partono tutte dalla forza del dollaro, ma anche molte differenze. Argentina e Turchia hanno entrambe un eccesso d’indebitamento in valuta forte ma mentre per il Paese sudamericano si tratta prevalentemente di un problema di debito pubblico, in Turchia è l'eccessivo stock di debito emesso in dollari da parte delle imprese private a preoccupare.
I due Paesi inoltre hanno entrambi livelli d'inflazione a doppia cifra (prossimi al 20%) ma gli investitori attribuiscono loro un diverso grado di credibilità rispetto alle scelte fatte dai rispettivi governi e banche centrali. Il mercato ha perso fiducia soprattutto verso Ankara e questo ha comportato un minor posizionamento in questi mesi verso i titoli turchi. Ma quanto queste diversità saranno sufficienti ad evitare che si inneschi il classico effetto domino?
Secondo Fabrizio Santin, portfolio manager di Pictet, nel corso della prima parte dell'estate i rischi erano limitati a Turchia e Argentina. Poi l'attenzione si è spostata su Paesi ad alto “beta” (tassi più elevati, disequilibri più forti e maggior rischio), come il Sudafrica e Brasile. Si tratta di una reazione abbastanza tipica del mercato, in quanto nelle fasi di avversione al rischio come l'attuale, questi paesi sono più vulnerabili rispetto ad altre economie emergenti a beta ridotto (tipicamente asiatiche). Neppure il Messico, nonostante la notizia positiva dell'accordo tra Usa e Messico per rivedere il trattato commerciale Nafta, è stato in grado di contenere le perdite. Goldman Sachs Am sottolinea che la debolezza degli asset nei mercati emergenti si è manifestata in tre ondate. La prima, guidata da una crescita globale più lenta nel primo trimestre, che ha creato preoccupazioni sulla capacità di questi paesi di finanziare i loro disavanzi. La seconda ondata è stata determinata dalle variabili politiche. La terza invece dalle tensioni commerciali tra Usa e Cina. Questa situazione richiedere molta cautela nel breve periodo. Tuttavia diversi gestori ritengono che restino inalterate le motivazioni che portano a investire su questi mercati nel lungo periodo : crescita sostenuta, condizioni demografiche favorevoli e in diversi casi basso debito, solidità dei bilanci e potenziale di crescita dei ricavi corporate.Il tutto in uno scenario in cui la crescita Usa e l'economia globale rimangono in fase espansiva. Però non si deve dimenticare che se un investitore avesse acquistato una obbligazione governativa a 10 anni in lira turca a gennaio avrebbe perso oltre il 50% (equamente distribuiti tra effetto tasso e valutario); la situazione è simile anche per i bond argentini. E che sono più di 450mila i risparmiatori italiani rimasti scottati nel 2001 dal crack dei Tango Bond.
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