«È davvero inusuale, nella storia, che un Presidente degli Stati Uniti generi così tanta incertezza. Per chi investe è oggettivamente difficile prevedere le sue prossime mosse». Kishore Mahbubani, ex diplomatico e professore in practice of Policy National University of Singapore, va dritto al cuore del problema: uno dei temi che oggi e nei prossimi anni più influenzeranno i mercati è l’incertezza politica. È incerta l’azione del Presidente Trump negli Stati Uniti, è precario l’equilibrio dell’Unione europea, è un rebus il rapporto di forza tra le grandi potenze mondiali. Cina e Stati Uniti innanzitutto. Per non parlare della Russia. O della Turchia. Sebbene la maggior parte degli investitori ed economisti sia convinta che la guerra commerciale avviata da Donald Trump finirà in una bolla di sapone, per fare un esempio, tutti sottolineano che a pesare oggi è proprio l’incertezza che genera. Stesso discorso per la situazione europea. Per quella italiana. E per quella turca.
Patrick Artus di Natixis ha elaborato un indicatore che misura, su una scala da 1 a 100, il livello di rischio percepito sui mercati. Ebbene: se tra il 2016 e il gennaio del 2018 questo indicatore mostrava rischio basso (quasi sempre sotto 20 punti), negli ultimi mesi è salito notevolmente arrivando a 82 a febbraio e restando sopra 50 fino ad oggi. Che sia la guerra commerciale di Trump, che sia la novità del Governo italiano, che sia il caos turco: sui mercati prevale un clima di incertezza che pesa sugli investimenti.
Il fantasma dei dazi
Il tema che più ha “disturbato” i mercati globali in questi ultimi mesi è quello della guerra commerciale. Donald Trump ha
dimostrato in più occasioni di lanciare il sasso nello stagno solo come arma negoziale, con l’obiettivo effettivo di raggiungere
un’intesa. Questa, almeno, è la sensazione di molti. E in effetti con l’Europa è già in corso il tentativo di un accordo.
Per questo la maggior parte degli economisti non prevede una guerra commerciale vera e propria in arrivo. «Non credo proprio
che ci sarà un’escalation tra Usa e Cina - osserva Mahbubani -. Perché entrambi sanno che non ci sarebbero vincitori». Come
dire: i dazi e i contro-dazi annunciati da Washington e Pechino (entrambi hanno un valore di circa 62-63 miliardi di dollari
inclusa la svalutazione dello yuan secondo i calcoli di Antonio Cesarano, chief economist di Intermonte) sono percepiti da
molti come semplici armi negoziali. Pura tattica.
Ma il problema non è l’esito finale: è l’incertezza che si genera nel frattempo. «Il commercio globale è atteso in crescita del 4,4% quest’anno a livello mondiale - calcola Simon Fraser, ex segretario permanente al Foreign and Commonwealth office -. Il problema è che la guerra commerciale sta cambiando le aspettative. L’umore. Questo sta modificando i comportamenti degli investitori». «L’impatto economico delle tariffe fino ad ora varate è pari praticamente a zero - conferma Philippe Martin, che in veste di presidente del Council of Economic Analysis lavora come consigliere indipendente del primo ministro francese -. Il problema è che questa situazione ha creato uno shock di incertezza. L’aspetto migliore dell’Organizzazione mondiale del commercio era che aveva creato certezza sul commercio globale. Ora è cambiato tutto».
Le vittime ci sono già: i paesi emergenti. Che, in molti casi, negli ultimi mesi hanno registrato veri e propri tracolli valutari. L’incertezza porta infatti capitali fuori dai loro confini, facendo cadere le valute. Il peso si sente soprattutto sui Paesi che hanno problemi interni, con deficit commerciali elevati e con bassi tassi di risparmio: questi Paesi hanno infatti bisogno di finanziare i deficit, ma se i capitali fuggono non riescono e devono farlo a tassi d’interesse sempre più elevati. Non è un caso che a soffrire i tracolli valutari maggiori siano i Paesi con problemi politici e con i deficit maggiori come Turchia (-6%), Argentina (-4,83%) e Sudafrica (-2,47%). Non solo. Il tracollo delle loro valute importa inflazione. Tutto questo costringe le banche centrali ad alzare i tassi, con il rischio di strozzare l’economia interna. «Il pericolo - osserva Artus di Natixis - è di creare un circolo vizioso».
Il caso italiano
Per certi versi simile alla guerra dei dazi è la situazione italiana dopo le elezioni che hanno portato partiti nuovi al Governo,
con una forte impronta anti-europea. Questo ha fatto alzare in maniera strutturale di 100 punti base (e oltre) lo spread tra
BTp e Bund. Anche qui il motivo non è legato a ciò che il Governo ha fatto, dato che essendosi insediato da poco ancora ha
fatto poco. Non ha neppure ancora varato la sua prima Manovra economica, attesa in autunno. Per cui da parte del mercato non
c’è alcuna “bocciatura”.
Il punto anche qui è un altro: finchè non viene varata la Manovra economica, resta sempre il sospetto - suffragato ogni tanto
da dichiarazioni vaganti o Tweet di esponenti del Governo - che l’Esecutivo voglia realizzare il programma previsto dal contratto
di Governo a deficit. Cioè andando allo scontro con l’Unione europea, rinvigorendo la retorica no-euro e mettendo in prospettiva
l’Italia nelle condizioni di dover uscire dall’euro.
È vero che il Governo smentisce. Anzi: i comunicati ufficiali sono molto equilibrati e lasciano presupporre un esito completamente
diverso. Il mercato lo sa. Ma l’incertezza gioca comunque brutti scherzi: il nuovo Governo dovrà conquistarsi la fiducia.
Nel frattempo, però, a farne le spese sono le banche (già si è visto nelle semestrali) e potenzialmente prima o poi anche
famiglie e imprese che potrebbero trovarsi a pagare più cari i nuovi mutui e i nuovi finanziamenti. Nel 2011, secondo i dati
di MutuiSupermarket, i prestiti per l’acquisto di case hanno iniziato a rincarare sei mesi dopo lo scoppio della crisi dello
spread. Perché l’incertezza non si vede, non si tocca, non ha odore nè sapore: ma di danni ne può fare.
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