Finanza & Mercati

Dossier Dalle banche alla finanza, il rischio ha cambiato casa

  • Abbonati
  • Accedi
    Dossier | N. 11 articoliA dieci anni dal crack

    Dalle banche alla finanza, il rischio ha cambiato casa

    I pericoli a   10 anni da Lehman (Epa)
    I pericoli a 10 anni da Lehman (Epa)

    Dieci anni fa, quando il crack di Lehman Brothers fece scoppiare la più violenta crisi che il mondo ricordasse dal 1929, la politica si accorse (all’improvviso...) quanto fosse fragile il sistema bancario globale e quanto fossero potenzialmente devastanti i mercati dei derivati e delle cartolarizzazioni. Dieci anni dopo le grandi banche sono state imbrigliate in oltre 200 regolamenti e normative a livello mondiale (secondo i calcoli di qualche tempo fa di Boston Consulting), i derivati sono stati in gran parte convogliati dentro Controparti centrali e le cartolarizzazioni sono state ridimensionate. Eppure oggi il mondo non appare molto più sicuro di allora: i rischi si sono infatti spostati altrove. Più precisamente, sui mercati finanziari. La risposta alla crisi del 2008 potrebbe aver gettato i semi per la prossima.

    Mentre il sistema bancario si ritirava da alcune delle attività più speculative e rischiose, proprio a causa delle regole, al suo posto avanzava infatti il cosiddetto «shadow banking». Cioè quel mondo fatto di veicoli d’investimento, di fondi e intermediari vari che svolgono parti dell’attività bancaria senza esserlo e senza essere assoggettati alle loro regole stringenti: secondo il Financial Stability Board questo mondo vale oggi 45mila miliardi di dollari. «I regulators si sono concentrati sul sistema bancario in questi anni, ma i rischi si sono spostati altrove - commenta Pascal Blanqué, chief investment officer di Amundi -. Cioè all’interno del sistema finanziario e in particolare sul fronte degli investitori». Potremmo definirlo il boomerang delle regole: rese le banche un po’ più sicure, si sono creati potenzialmente altri soggetti «troppo grandi per fallire».

    Too big to fail/1
    Per esempio le grandi società di gestione del risparmio. Il primo effetto collaterale della valanga normativa che ha colpito le banche è stato infatti lo spostamento dell’attività creditizia verso il mondo del risparmio gestito. Mentre le banche riducevano l’erogazione di credito alle imprese, i fondi le hanno infatti sostituite comprando sempre più obbligazioni emesse dalle imprese stesse. Anche quelle poco affidabili:  oggi - secondo i dati di Banca del Ceresio - negli Stati Uniti il mondo del risparmio gestito ha così in mano il 30% dei bond “spazzatura” (junk) contro il 18% del 2008. In Europa la quota è salita dal 5% al 20%. I rischi nei loro portafogli sono dunque aumentati. Se i default aumentassero, i problemi potrebbero emergere.
    Ma a preoccupare davvero è il secondo effetto collaterale prodotto dalle normative sulle banche: l’illiquidità dei mercati obbligazionari. Per rendere più sicure le grandi banche d’affari, le regole hanno infatti reso più costoso per loro svolgere l’attività di «market maker»: così oggi le banche d’affari non garantiscono più la liquidità sui mercati secondari dei bond come facevano un tempo. Morale: il mercato obbligazionario è diventato pressoché illiquido in molte sue parti. Calcola Guillermo Osses di Man Group che tra le 700 imprese dei Paesi emergenti che hanno obbligazioni sul mercato, solo 23 hanno scambi giornalieri superiori ai 10 milioni di dollari. Uno studio dell’Esm conferma: in Europa, includendo i titoli di Stato, esistono solo 221 bond con una liquidabilità accettabile.
    E qui viene il problema per i fondi che detengono grosse fette di questo mercato: cosa potrebbe accadere se, per qualunque motivo, scoppiasse il panico sui mercati e i clienti di questi fondi volessero liquidare le loro quote? Dato che i fondi investono spesso in asset illiquidi, potrebbero faticare a venderli e dunque a reperire le risorse per rimborsare i clienti. «Credo che se un giorno ci trovassimo in una situazione in cui i grandi fondi hanno molte richieste di riscatto, sul mercato obbligazionario si potrebbe essere una significativa correzione» prevede Osses. E non è il solo a pensarla così. Le autorità di Vigilanza e il mondo politico si sono accorti di questo problema, e stanno provando a porre rimedio. Sarà un caso, ma - secondo i dati di OpenSecrets.org - i grandi fondi proprio in questi anni hanno aumentato la spesa per l’attività di lobby: come per evitare future legislazioni più stringenti...

    Too big to fail/2
    Ma la valanga normativa ha prodotto effetti potenzialmente boomerang anche in un altro settore: quello dei derivati. Le regole partorite dopo il crack di Lehman hanno fatto di tutto per portare fette sempre più consistenti di questo gigantesco mercato dentro i «cuscinetti assorbi-urti» delle Controparti centrali. L’obiettivo era proprio evitare ciò che accadde con il crack di Lehman: che fallisse una controparte lasciando il mercato scoperto. I derivati sono infatti contratti finanziari che vengono usati da investitori e banche per assicurarsi da vari rischi, come il rialzo dei tassi o il movimento indesiderato di una valuta o il default di un debitore. Funzionano come polizze assicurative, con una parte che le vende “protezione” contro un rischio e un’altra che l’acquista. Il problema nasce se una grossa controparte fallisce, lasciando scoperti tutti coloro che da lei avevano comprato protezione. Come fece Lehman. Questo è il cosiddetto «rischio di controparte». Per questo le normative hanno favorito la concentrazione dei derivati in Controparti centrali: soggetti che si mettono in mezzo a due contraenti di derivati e che garantiscono l’altro in caso di fallimento di uno dei due.
    Ma un mercato gigantesco concentrato in 19 Controparti centrali (tante ne calcola la Bri) rischia di creare un problema nuovo: e se oggi fossero proprio loro i nuovi soggetti «too big to fail»? Sebbene queste istituzioni abbiano molte protezioni, è una domanda che in tanti si pongono. Un allarme a maggio l’hanno lanciato anche la Bri, lo Iosco e la Committee on Payments and Market Infrastructures (Cpmi). Nel loro ultimo rapporto rilevano infatti che alcune «Controparti Centrali non soddisfano ancora i requisiti richiesti nelle aree del risk management e dei piani di recupero». «Questo - aggiunge il rapporto - costituisce in certi casi motivo di seria preoccupazione». Nuove regole? Maggiore vigilanza? Il rischio è di toppare una falla, creandone sempre un’altra.

    © Riproduzione riservata