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Dossier Il fardello di un’unione solo a metà

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    Dossier | N. 11 articoliA dieci anni dal crack

    Il fardello di un’unione solo a metà

    Il fallimento di Lehman Brothers è stato lo shock più drammatico della storia finanziaria americana, forse anche di più del crollo di Wall Street dell’ottobre 1929.

    Basta rivedere le immagini dei telegiornali di quei giorni (ad esempio nel bel documentario Too big to fail) per rivivere il panico di quei giorni: si temeva davvero che non solo la finanza americana, ma l’intera economia mondiale fosse sull’orlo dell’abisso.

    A distanza di dieci anni, possiamo dire di aver messo alle nostre spalle quelle tragiche vicende? La risposta è pienamente affermativa se guardiamo al sistema americano. Basta considerare il rendimento del capitale azionario delle banche, che dopo la sbornia dei livelli degli anni pre-crisi gonfiati dalle bolle speculative, è precipitato sotto lo zero per poi portarsi stabilmente intorno al 10%, cioè il livello degli anni 90, quando peraltro i tassi a lungo termine erano ben più alti di oggi. Chi guarda alla curva di lungo periodo, ha l’impressione che nel 2008 sia avvenuta una caduta improvvisa, come un calo di tensione forte ma temporaneo in una rete elettrica.

    Tutt’altra storia invece in Europa e in particolare nell’area dell’euro, dove il rendimento medio del capitale bancario è del 6% nel 2017 (ed era poco più del 3% l’anno prima). E non si creda che si tratti di un effetto della moneta unica perché le banche britanniche stanno anche peggio. Non basta. I dati della Bce ci dicono che la dispersione intorno alla media è molto preoccupante e un intero quartile, cioè il 25% dei casi, registra addirittura valori nulli o negativi. Dunque di là dell’Atlantico un sistema pienamente ristabilito, di qua un convalescente pallido e ancora stremato che non crea valore per gli azionisti.

    Perché un divario così netto? La risposta è semplice: gli Stati Uniti non solo avevano già un sistema bancario omogeneo con una guida unitaria, ma soprattutto hanno reagito con grande rapidità iniettando capitali pubblici per oltre 700 miliardi di dollari, sfidando lo sdegno dei cittadini, ma anche la riluttanza delle stesse banche ad avere un socio pubblico. Subito dopo, in occasione dello stress test di maggio 2009, la banca centrale annunciò che le banche con eventuali deficit patrimoniali avrebbero dovuto colmarlo immediatamente sul mercato e, se questo non avesse risposto, sarebbe intervenuto lo zio Sam.

    Con questi due interventi in rapida successione, un sistema bancario che sembrava sull’orlo del tracollo si è prontamente ripreso per una semplice ragione: è stata ripristinata la fiducia, cioè il collante essenziale della stabilità di un sistema finanziario. La collaudata esperienza di istituzioni come la Federal Deposit Insurance Corporation (Fdic, l’Istituto di assicurazione dei depositi) in materia di gestione delle crisi bancarie ha consentito poi di gestire in maniera ordinata ben 500 fallimenti bancari avvenuti nei cinque anni successivi a quello di Lehman.

    L’Europa ha dovuto invece costruire una struttura comune di supervisione in fretta e furia e ha affrontato in ordine sparso la crisi, perché ancora una volta le gelosie nazionali hanno prevalso sull’interesse comune. Con il risultato che la crisi è diventata una sorta di male cronico. L’Unione bancaria è stata avviata, ma non completata perché l’assicurazione dei depositi (e la realizzazione di un’istituzione come la Fdic) è rinviata a data da destinarsi. La crisi ha continuato così a far cadere una banca dopo l’altra, come se un serial killer si aggirasse per il continente. Basti pensare che gli ultimi dissesti (Banco Popular in Spagna e banche venete in Italia) sono avvenute a 9 anni di distanza da Lehman.

    E per aggiungere al danno le beffe, Paesi come l’Italia in cui la crisi ha colpito in ritardo hanno scoperto che la strada della ricapitalizzazione pubblica che era stata larghissima per gli altri Paesi a cominciare da Francia e Germania (l’Europa complessivamente ha immesso nelle banche più capitali statali degli Stati Uniti) era diventata di colpo un sentiero strettissimo, sorvegliato da occhiuti custodi a Bruxelles e Francoforte. Con le inevitabili conseguenze per tanti risparmiatori che avevano investito i loro risparmi in titoli bancari che credevano sicuri e li hanno invece visti inghiottiti nella trappola del bail-in.

    La risposta alla domanda da cui siamo partiti è quindi semplice: gli Stati Uniti hanno messo definitivamente alle spalle la crisi perché hanno dato risposte efficaci e immediate, l’Europa arranca ancora faticosamente in mezzo al guado perché ha toccato con mano le mille contraddizioni di una costruzione comunitaria incompleta e ancora ostacolata dagli euroscettici di lungo corso e dai neo-adepti del nazionalismo protezionistico.

    È giusto quindi ricordare il decennale di quei drammatici giorni, ma solo se finalmente riusciamo a leggere in quella storia la vera lezione. Altrimenti vale quanto diceva Alan Bennett con il suo solito spirito graffiante: «Non c’è modo migliore per dimenticare che commemorare».

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