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Dossier Il grande balzo cinese che muta gli scenari

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    Dossier | N. 11 articoliA dieci anni dal crack

    Il grande balzo cinese che muta gli scenari

    (Afp)
    (Afp)

    A 10 anni dal fallimento Lehman il mondo si confronta con una Cina molto diversa.

    È aumentata in misura abnorme la sua rilevanza economica su scala globale: il suo Pil è cresciuto di quasi tre volte e la crescita economica mondiale dipende per oltre il 50% dal Dragone; è d’altro canto aumentato in misura molto significativa il suo livello di integrazione nelle catene globali di fornitura – basti pensare che il suo export è cresciuto di circa l’80% in valore nel decennio ed è quasi raddoppiato il valore delle importazioni.

    È cambiato in misura molto significativa il Dna della sua industria; se nel 2008 la Cina poteva essere considerata il workshop produttivo a basso costo del mondo, ora le priorità, per il Partito e le imprese, sono due: innovazione e trasformazione digitale. In particolare, il varo del piano Made in China 2025 – che sancisce un obiettivo di leadership tecnologica cinese per dieci settori industriali entro il 2025 – e il fatto che gli investimenti in R&S sviluppo siano ormai prossimi a quelli Usa evidenziano quanto importante sia il cambio di traiettoria del sistema industriale cinese. Altrettanto rilevante è stata la trasformazione digitale: la Cina ha infatti conquistato la leadership tecnologica nella produzione di device mobili, nell’intelligenza artificiale e nell’IoT; è di gran lunga il più grande mercato e-commerce del mondo e registra pagamenti digitali che in valore sono 50 volte più grandi di quelli americani.

    La Cina è diventata anche più assertiva su scala internazionale, dimostrando – attraverso il varo del progetto della Belt and road initiative o Nuova Via della Seta e gli investimenti/finanziamenti in Africa – che intende plasticamente elevarsi a nuova super potenza in contrapposizione agli Usa.

    In questa prospettiva, la crisi sembrerebbe aver accelerato una trasformazione comunque inevitabile per l’ex Impero di Mezzo. A onor del vero, non sono tutte rose; la Cina è riuscita a risultare pressochè indenne dalla crisi del 2007 grazie al varo di un enorme piano di stimolo fondato su investimenti pubblici e al ricorso a politiche molto aggressive di finanziamento del sistema delle imprese: in questi anni il debito è letteralmente esploso, passando da un’incidenza del 170% sul Pil al 299% del primo quadrimestre 2018.

    Tant’è che prevale ormai a livello internazionale l’idea che l’eccessivo indebitamento e la guerra commerciale lanciata da Trump porteranno presto la Cina ad un hard landing. Vero? A mio avviso, non necessariamente. Anche se la sfida per Xi è tutt’altro che facile.

    Non si giocherà tanto sulla disputa commerciale visto che la Cina ha, da un lato, diminuito la sua dipendenza dall’export – l’avanzo commerciale è infatti passato dal 9% del Pil al 2% – e, dall’altro, può controbilanciare, almeno in parte, la parziale chiusura del mercato americano con una crescita della sua presenza commerciale in Asia e in Europa. Anche per questo è stato intrapreso il progetto della Nuova Via della Seta. Sarà invece una partita prevalentemente interna per il fatto che l’economia cinese è ancora fortemente sbilanciata: l’incidenza degli investimenti è ancora troppo alta – 44% del Pil contro il 41% del 2007 – e di converso il peso dei consumi interni (privati e pubblici) – 54% del Pil – stenta ad attestarsi ai livelli dei Paesi evoluti.

    La sfida è quindi piuttosto chiara: ridurre il livello degli investimenti non produttivi, senza impattare in misura eccessiva sui livelli di disoccupazione, sostituendoli con maggiori consumi; un risultato che può essere ottenuto facendo crescere il reddito delle famiglie che vantano ancora oggi livelli di risparmio troppo alti (circa 6 trilioni di dollari ogni anno). Si tratta ovviamente di un intervento politicamente complesso ma che può avere chance per almeno tre motivi. Il potenziale di crescita dei consumi interni è davvero molto ampio visto che entro il 2020 saranno 400 milioni i cinesi che potranno essere annoverati nella classe media. Sta, in secondo luogo, emergendo una nuova classe di imprenditori che, investendo massicciamente sulle tecnologie digitali, è in grado di creare riserve di profittabilità molto importanti e nel contempo di assumere capitale umano corrispondendo salari elevati: basti pensare che il valore degli 89 unicorni cinesi (350 miliardi di dollari) è ormai pari a quello degli analoghi americani. Lo stock di riserve monetarie della Cina (oltre 4 trilioni di dollari) rende sostenibile anche l’adozione di interventi volti a consolidare il welfare e quindi a stimolare la propensione al consumo della popolazione.

    Nel complesso si tratta di un cambio di passo non indifferente. Il Partito comunista ha tuttavia già dimostrato negli ultimi decenni di saper rischiare in almeno tre casi: la riforma economica di Deng Xiaoping, il ricorso a Internet come strumento di supporto dell’economia di Jiang Zemin e il via libera ai viaggi all’estero dei turisti cinesi. Ora la sfida è forse ancora più complessa, ma ineludibile: ne va non solo del futuro della Cina, ma dell’economia globale.

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