In Italia la crisi finanziaria del 2008 verrà ricordata per la sua lunghezza e profondità. A 10 anni dal suo inizio il reddito degli italiani è ancora sotto il suo livello pre-crisi per circa 2.500 euro per persona.
E la produzione industriale dista poco meno di 20 punti da quella del 2008. Ai ritmi di crescita correnti si ritornerà ai livelli di attività del 2008 forse nel 2023. Non è una novità che le crisi finanziarie siano diverse dalle normali recessioni provocate da un calo della domanda o da uno shock all’offerta proprio perché molto più protratte. Questo accade per diverse ragioni: perché creano scetticismo e sfiducia reciproca tra chi dà e chi prende credito e questa sfiducia è molto lenta da riparare. Nei primi anni 90 dopo la crisi delle Savings and loan associations negli Stati Uniti ci vollero 10 anni per riportare la fiducia verso il mercato finanziario ai livelli pre-crisi. Nell’Italia di oggi la sfiducia verso le banche è ai minimi storici e lontana dai livelli ante crisi. E senza (o con meno) fiducia e credito si blocca quel meccanismo vitale che consente di costruire oggi il futuro prendendo a prestito da esso. Le crisi finanziare perdurano anche perché creano traumi e paure che riducono la disponibilità a prendere rischi. A distanza di decenni, le generazioni cresciute durante la grande crisi del 1929 sono risultate più avverse al rischio di quelle, altrimenti simili, che non subirono quel trauma.
Ma il rischio è alla base dell’investimento e della crescita di un Paese. Lo strascico delle crisi finanziarie è talvolta anche il portato della repressione che a esse segue: la reazione alla crisi del 1929 fu una ondata di severa regolamentazione che finì per sopprimere la concorrenza nel mercato del credito. Ci vollero trent’anni per smantellarla, errando nella direzione opposta: una troppo rapida ed eccessiva liberalizzazione che ha prodotto non solo crescita economica, ma anche euforia e accumulo di debito che hanno reso le economie vulnerabili alla crisi successiva.
La reazione regolamentare alla crisi del 2008 è stata meno violenta, ma verosimilmente anche stavolta eccessiva: la complessità della regolazione è aumentata, i costi per ottemperarvi cresciuti notevolmente, il numero di regolatori e agenzie cui riportare pure. In parte questo è l’indispensabile adattamento al funzionamento dei nuovi mercati finanziari, in parte è la risposta più facile a una forte domanda di protezione da parte dei risparmiatori traumatizzati dalle perdite subite.
Quelli che ho descritto sono meccanismi economici. Ma le crisi finanziarie, quelle più acute e lunghe, possono avere effetti molto duraturi e costosi perché aprono lo spazio a strappi politici che, lungi dall’essere la soluzione dei malanni della crisi, ne possono estendere e prolungare gli effetti. L’incertezza economica che grava sulle persone, il bisogno di protezione che ne consegue, la necessità di soluzioni immediate che i cittadini-elettori lamentano e l’impossibilità di continuare a fronteggiare le necessità correnti con i propri risparmi, falcidiati dalla lunghezza e l’intensità della crisi, rendono gli elettori sensibili a promesse illusorie di soluzioni immediate.
Le normali recessioni creano un avvicendamento al governo dei partiti tradizionali; le crisi protratte fanno emergere nuovi soggetti. Provati a turno i diversi partiti tradizionali e verificato il loro fallimento nel trovare soluzioni immediate, si apre lo spazio per nuovi movimenti che, in nome del popolo e contro le élite, promettono immediata protezione. È quanto stiamo osservando in Occidente, con la crescita impetuosa di consenso verso i movimenti populisti, correlata con l’intensità della esposizione alla crisi (che non ne è comunque l’unica causa). L’avvento di nuovi partiti che soppiantano i precedenti quando questi falliscono è normale e utile. Ma se i nuovi fanno credere e lasciano i cittadini sperare che si possano risolvere problemi complessi in fretta e con ricette semplici, guadagneranno consensi ma renderanno la crisi ancora più lunga e grave. Nel suo splendido libro sulla storia della finanza, William Goetzman, professore a Yale, identifica in Urukagina l’esempio del primo populista della storia. Andò al potere quando la ricca città di Lagash, in Mesopotamia, fu colpita da una crisi finanziaria. Accusò il predecessore di corruzione e, con la promessa della cancellazione dei debiti che gravavano sui cittadini, ne ottenne il consenso e conquistò il potere. Onorò la promessa, ma con la cancellazione dei debiti scomparve anche la finanza. E con essa la prosperità di Lagash che non si riprese mai più.
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