Chi nel 2008 definì la valanga finanziaria che si stava abbattendo sull’umanità come la «crisi del debito», riferendosi a quei tempi ai mutui americani, oggi dovrebbe trovare una definizione ben più enfatica. Perché da allora i debiti totali (pubblici e privati) secondo Iif sono aumentati di 72mila miliardi di dollari, arrivando alla cifra quasi impronunciabile di 237mila miliardi. E di questi, 59mila miliardi sono sulle spalle delle aziende di tutto il mondo. Ma, sebbene impressionanti, non sono i numeri il problema. Sono piuttosto le modalità con cui questi debiti sono cresciuti.
Grazie alle politiche monetarie ultraespansive e alla regolamentazione internazionale che ha legato le mani alle banche, a finanziare questa espansione creditizia sono stati infatti in gran parte i mercati finanziari. A partire dalle società di asset management. Non tanto le banche. Grandi rischi sono quindi oggi nelle mani di grandi società di gestione del risparmio che sono tutt’ora sottoposte a regole prudenziali ben più blande rispetto alle banche. Così molti sono oggi convinti che siano queste le istituzioni «too big to fail». Troppo grandi per fallire.
Alti rischi, bassi rendimenti
Anni di politiche monetarie ultra-espansive hanno geneticamente modificato la propensione al rischio degli investitori e la
struttura stessa dei mercati obbligazionari. A preoccupare sono soprattutto quelli delle aziende, i cosiddetti «corporate
bond». Non solo sono cresciuti in dimensioni, ma sono aumentati in rischiosità “congenita” nonostante i rendimenti siano scesi
sui minimi storici. E ora che sono un po’ risaliti, continuano a non remunerare i rischi che gli investitori corrono. Sono
i numeri a parlare da soli.
Nel 2007 su 100 corporate bond emessi a livello mondiale, 80 avevano un rating investment grade (dunque avevano un’elevata
affidabilità) e 20 avevano un rating speculativo (erano cioè bond spazzatura, «junk»). Ora le percentuali sono molto cambiate:
su 100 bond aziendali emessi, solo 58 sono “investment grade” (dunque più affidabili) e i restanti 42 sono sono “junk”. Questi
dati, dell’Ocse, dimostrano che ormai vengono emesse molte più obbligazioni da parte di aziende poco affidabili, perché il
mercato è disposto a finanziarle come non mai. A tassi bassi. Questo, almeno, fino a qualche mese fa. Non solo. Se anche si
guardano le obbligazioni con rating “investment grade” si nota anche qui un generale deterioramento: secondo i dati di Gluskin
Sheff pubblicati da Bloomberg, oggi quasi il 50% di queste obbligazioni ha rating “BBB” (dunque il minore per essere considerate
“investment grade”), mentre nel 2009 erano appena il 32%. Insomma: anche nella Serie A del mercato obbligazionario, aumentano
le squadre di mezza classifica.
E non finisce qui. A deteriorarsi negli ultimi anni sono state anche le protezioni contrattuali e legali inserite nei prospetti
dei bond. Quelle messe a garanzia degli investitori: i cosiddetti “covenant”. M&G ha creato una scala che mostra la forza
protettrice dei covenant nelle obbligazioni statunitensi, con punteggi che vanno da 1 (protezione massima) a 5 (minima). Ebbene: per
i bond con rating «B», ad esempio, la protezione è peggiorata da 3,40 a 4,20 circa dal 2012 a fine 2017. E in Europa il fenomeno
è simile. Anche sul fronte dei leveraged loans, su cui molti investitori puntano: quelli a bassa protezione contrattuale (i
cosiddetti “covenant lite”) nel 2017 erano il 60% delle emissioni totali, mentre nel 2007 circa il 5%. Insomma: i bond aziendali
hanno mediamente rating sempre più bassi e protezioni legali sempre più affievolite. Eppure, a fronte di una maggiore rischiosità,
i rendimenti negli ultimi anni sono scesi. A causa della grande domanda di bond da parte di investitori sempre più grossi
in cerca di rendimenti. E qui viene il secondo capitolo del problema.
Investitori e illiquidità
A fare incetta di obbligazioni negli ultimi anni è stato il mondo del risparmio gestito. Anche perché la regolamentazione
sempre più restrittiva prodotta dai Governi nei confronti delle banche dal 2008 in poi ha costretto i tradizionali istituti
creditizi a ridurre i finanziamenti alle imprese. Così, mentre le banche si ritiravano, sono arrivati i fondi d’investimento
a sostituirle: più snelli e con regole meno asfissianti, in questi anni sono stati loro a contribuire in maniera determinante
all’espansione creditizia. Comprando obbligazioni emesse da aziende. Anche quelle meno affidabili. Oggi - secondo i dati di
Banca del Ceresio - negli Usa i fondi detengono il 30% del mercato dei bond “spazzatura” (erano al 18% nel 2008) e in Europa
il 20% (erano al 5% nel 2008).
Ma il rischio maggiore per chi detiene grosse fette del mercato obbligazionario è un altro: l’illiquidtà. Questo significa
che non esiste più un efficiente mercato secondario. Il motivo, anche qui, è legato alle regole che hanno colpito il settore
bancario e che hanno reso oggi per le investment bank più oneroso (dunque non conveniente) svolgere attività di market maker.
Di fatto le grandi banche non sono più “garanti” della liquidità sui mercati secondari. Così le banche oggi sono più sicure,
ma in compenso sul mercato si è creato un rischio di illiquidità potenzialmente esplosivo. E a farne le spese sono proprio
i grandi fondi, che investono grandi quantità di denaro in mercati illiquidi.
Il tema è ben chiaro a Pascal Blanqué, chief investment officer di Amundi: «Il disallineamento tra la liquidità dei fondi,
che garantiscono liquidabilità quotidiana delle quote ma investono in asset potenzialmente illiquidi come ad esempio alcuni
segmenti del mercato obbligazionario high yield, è un’area potenziale di rischio. Per questo guardiamo con attenzione alla
gestione della liquidità dei fondi». Insomma: i fondi garantiscono ai clienti di poter ritirare i propri soldi in qualunque
momento, ma investono in titoli spesso invendibili sul mercato perché non esistono compratori. Se ci fosse dunque una corsa
ai riscatti, per molte società di gestione potrebbero iniziare i guai: si troverebbero impossibilitate a vendere i titoli
per rimborsare i clienti. Per mancanza di mercato. Di liquidità. Di market maker. Per un effetto boomerang delle normative.
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