Il 15 settembre 2008, la Lehman Brothers Holdings Inc., fondata nel 1850, annunciò di avere chiesto l’ammissione alle procedure fallimentari. La data fissa, nella memoria collettiva, l’inizio della Grande recessione. Nei dieci anni passati da allora, abbiamo imparato molte cose, su alcune restano punti interrogativi che solo il futuro scioglierà, su altre c’è resistenza nell’assimilare quanto abbiamo appreso.
Abbiamo anzitutto imparato che le crisi finanziarie internazionali sono possibili. Detta oggi, questa è – per fortuna – affermazione banale. Non lo era nel 2008. Le crisi finanziarie si sono ripetute nei secoli. La prima della quale abbiamo notizie, seppure vaghe, è dell’86 avanti Cristo.
Ci sono stati i tulipani, la azioni della Compagnia delle Indie Occidentali, i “veicoli fuori bilancio” del 1907, il contagio delle banche tedesche e americane del 1930-32... Eppure, per usare il titolo di un libro fortunato, fino al 2007 c’era notevole consenso nel ritenere che “questa volta” le cose stessero in modo diverso. Crisi, come quella asiatica del 1997-98, erano viste in Occidente come confinate ai Paesi emergenti. Esisteva un largo consenso, tra economisti e responsabili della politica economica, che il capitalismo maturo avesse definitivamente trovato la via della stabilità, grazie a mercati finanziari ampi, globali, tecnicamente raffinati, tenuemente regolati. Si credeva di avere trovato il Sacro Graal della stabilità. Non era, dunque, ingenua la domanda della regina Elisabetta: «Perché nessuno ha visto arrivare la crisi?». La lezione non è da poco: il mondo occidentale si è risvegliato alla realtà che le crisi sono e (probabilmente) saranno a lungo con noi. Dobbiamo riuscire, questa volta, a non dimenticarla.
Abbiamo (re)imparato, anche riflettendo sugli anni Trenta, che le politiche monetarie e fiscali, accompagnate da convinta cooperazione internazionale, sono in grado di mitigare le crisi. Abbiamo scoperto che i banchieri centrali hanno armi potenti delle quali essi stessi non sapevano di poter disporre. Nell’Europa meridionale, i governi e i loro elettori hanno appreso, a caro prezzo, quanto sia costoso – per occupazione, investimenti, consumi – affrontare una crisi con l’arma fiscale scarica a causa di un eccessivo debito pubblico.
Dovremo però attendere ancora qualche anno per fare un bilancio completo di che cosa abbiamo imparato nel decennio seguito al crack di Lehman Brothers. Sappiamo di avere farmaci potenti per curare la malattia al suo primo apparire, ma non è ancora chiaro quali siano i loro effetti secondari. Tassi d’interesse eccezionalmente bassi, negativi per la prima volta nella storia, protratti per lungo tempo hanno inciso sulla struttura economica e sulle aspettative di produttori e consumatori, oltre che del sistema finanziario e dei suoi operatori. Non sappiamo che cosa succederà al malato convalescente, soprattutto a quello europeo, quando gli verrà tolto il sostegno dei farmaci. Né sappiamo quanto sia socialmente sostenibile la riduzione del debito pubblico, necessaria sia per ridurne il rischio sia per ricostituire l’arsenale di munizioni adatte a combattere la prossima crisi.
Abbiamo imparato a ridurre l’instabilità intrinseca del sistema finanziario? Dopo il 2008, regolazione e supervisione di banche
e finanza sono state rafforzate, soprattutto imponendo una maggiore capitalizzazione. Non c’è stato, però, un cambiamento
della cultura economica e politica simile a quello che seguì la crisi degli anni Trenta. Nel maggio scorso, il Congresso degli
Stati Uniti ha votato misure che diluiscono la legislazione Dodd-Frank introdotta nel 2010. In Europa, l’Unione bancaria resta
incompiuta mentre non pare che a Wall Street e nella City le prassi quotidiane siano molto cambiate. I livelli d’indebitamento
pubblico e privato sono nuovamente ai massimi storici, questa volta anche in Cina. La domanda è se, passata l’emergenza, non
si stia silenziosamente tornando alla “normalità” pre-2007. Nel difficile equilibrio tra sostegno della crescita e riduzione
del rischio d’instabilità, stiamo di nuovo sottovalutando quest’ultimo? Se così fosse, perderemmo quella che è oggi, più di
quanto fosse solo tre anni fa, la lezione più importante di questo decennio: gli effetti economici della crisi, tranne casi
eccezionali come quello italiano, sono stati profondi ma di durata relativamente breve, quelli sociali e politici, esplosi
in ritardo, con la ripresa dei redditi e dell’occupazione bene avviata, rischiano di essere duraturi e potrebbero mettere
in tensione le stesse istituzioni democratiche. Non sarebbe la prima volta nell’arco di un secolo. Le ragioni per errare dal
lato della prudenza, per non indebolire le istituzioni che riducono il rischio di instabilità, sono oggi più forti di quanto
fossero nel 2010. Riportare al 2007 il calendario culturale e politico significherebbe ignorare quanto abbiamo imparato negli
ultimi dieci anni.
gtoniolo@luiss.it
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