I fondi di private equity esteri non temono le incertezze del mercato italiano e della politica, almeno per il momento. Una indicazione in questo senso arriva dai dati del primo semestre di Aifi (Associazione Italiana di private equity) che mostrano una crescita della raccolta del 535%, una tendenza che si annuncia confermarsi anche nel secondo semestre. Un dato confortante che arriva in un momento in cui altri indicatori mostrano, al contrario, un disimpegno verso l’Italia. «L’interesse dei fondi esteri (per il private equity italiano) si conferma anche per i prossimi mesi» dice Francesco Giordano, partner di PwC che insieme ad Aifi ha redatto il rapporto semestrale. Un dato soprattutto confermato dal numero di operazioni effettuate da fondi internazionali, in Italia il 50% sul totale.
In generale, il private equity è cresciuto nel primo semestre del 55% come raccolta pari a 1,9 miliardi di euro, e del 49% come investimenti per 2,9 miliardi di euro per un totale di 160 operazioni (+15 per cento). I disinvestimenti sono stati poco sopra il miliardo (-10%) con 59 operazioni. C’è il caso del segmento dell’early stage (ad esempio le start up) cresciuto nel semestre del 122% in ammontare (96 milioni) e del 23% per numero di operazioni, pari a 80 ovvero la metà del totale del settore. Per quanto riguarda le infrastrutture, un settore su cui si concentra oggi l'attenzione anche della politica, gli investimenti sono stati pari a 1,1 miliardi (+202 per cento). C’è poi il buyout (acquisizioni di quote di maggioranza o totalitarie) cresciuto del 10% a quota 1,3 miliardi di euro; l'expansion (investimenti di minoranza finalizzati alla crescita dell'azienda) ha attratto 230 milioni di euro (+67 per cento).
Guardando alle fonti della raccolta dei soggetti privati, in testa ci sono gli investitori individuali e family office con il 17% seguiti dai fondi pensione e casse con il 15,6% (il 5% solo quelli italiani, circa 75 milioni di euro): «troppo pochi » secondo Innocenzo Cipolletta, presidente di Aifi il quale auspica che parte della raccolta dei fondi di previdenza e delle casse pari a 220 miliardi di euro «non vengano investiti soltanto in titoli di Stato e obbligazioni, ma anche in attività legate all’economia italiana».
Cipolletta ha ricordato che gli investimenti nei fondi di private equity e private debt sono detassati e garantiscono un rendimento superiore ai titoli di Stato, incentivi che dovrebbero sostenere gli investimenti, «ma tutto questo non basta». Un altro esempio citato da Cipolletta sono i Pir di fatto diventati «un imbuto, tutto è confluito su un mercato già costituito, a volte gonfiandolo. O si trova un canale per far crescere le pmi o continueremo a dipendere dal credito bancario. E con il credito bancario si sopravvive ma non si cresce» aggiunge Cipolletta. I Pir investono «solo sulle aziende quotate, sul non quotato non è arrivato nulla per quanto tutti i fondi aperti possano investire il 10% nel non quotato - ha ricordato Gervasoni - bisogna solo volerlo, tutto il resto è un alibi». Alcune leggi sono state fatte, ora serve una «moral suasion» da parte delle istituzioni.
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