Il mercato del petrolio ha la memoria corta. O forse ha buoni motivi per non aver paura. Sta di fatto che le quotazioni del barile non si sono messe a correre in reazione al caso Khashoggi, nemmeno dopo che l’Arabia Saudita ha minacciato – sia pure in modo velato – di usare proprio l’oro nero per vendicarsi di eventuali sanzioni americane. Il Brent ha avuto una breve fiammata, ma ha poi chiuso con un rialzo inferiore allo 0,5%, sotto 81 dollari.
Per decenni Riad non aveva mai suggerito, nemmeno lontanamente, questa possibilità. Ma un precedente c’è stato ed è quello che ora ricordiamo come «shock petrolifero» del 1973: in seguito alla Guerra del Kippur, l’Arabia Saudita con altri Paesi arabi decretò l’embargo delle forniture verso i Paesi filo-israeliani, facendo raddoppiare in pochi mesi il prezzo del barile e finendo col mettere in ginocchio l’economia mondiale.
Oggi i sauditi non perdono occasione per vantarsi di essere produttori responsabili, sempre pronti a mantenere «ben rifornito» di greggio il mercato, soddisfando ogni necessità dei clienti.
Anche le richieste della Casa Bianca – in pratica, ridurre i tagli dell’Opec Plus per agevolare l’«azzeramento» dell’export iraniano – sono state docilmente assecondate. Almeno fino a domenica, quando Riad ha risposto con un comunicato durissimo a Donald Trump, che minacciava una «severa punizione» in caso di responsabilità nella morte di Jamal Khashoggi, il giornalista dissidente , residente negli Usa e collaboratore del Washington Post, che si sospetta sia stato ucciso nel consolato saudita di Istanbul.
L’Arabia Saudita risponderà con «azioni ancora più forti», dice la nota affidata all’agenzia ufficiale Spa, ricordando che il Paese ha «un ruolo influente e vitale» nell’economia del Pianeta.
Poco dopo un editoriale del direttore del network televisivo Al Arabiya ha chiarito ancora meglio il messaggio (non si sa con quanta autonomia di pensiero): «Se il presidente Trump era irritato dal petrolio a 80 dollari, nessuno dovrebbe escludere che il prezzo balzi a 100 dollari e poi a 200 dollari al barile, o magari anche il doppio», ha scritto Turki Al Dakhil.
Ieri Trump ha ammorbidito la posizione nei confronti di Riad. E forse anche questo ha contribuito a tranquillizzare il mercato. Lo stesso Khalid Al Falih, il ministro saudita dell’Energia, durante un viaggio in India ha affermato che il regno vuole «continuare a sostenere la crescita dell’economia globale e la prosperità dei consumatori nel mondo».
Ma se possiamo sperare di salvarci da un nuovo shock petrolifero non lo dobbiamo al buon cuore dei sauditi, ma alle leggi del denaro. Riad difficilmente userà il petrolio come arma, perché farebbe del male anche a se stessa.
Uno stop alle esportazioni solo verso gli Usa servirebbe a poco per spingere i prezzi internazionali. E comunque dei 700-800mila barili che ogni giorno Riad spedisce agli americani, una buona parte servono alla raffineria Motiva di Port Arthur in Texas, la più grande dgli Usa, che è di proprietà di Saudi Aramco. La compagnia saudita vende anche carburanti in numerosi Stati del Paese e ha diversi progetti d’investimento nel settore petrolchimico. A maggio scorso ha anche creato una joint venture tra Sabic e ExxonMobil, per costruire un impianto da 10 miliardi di dollari in Texas. Infine Bahri Oil, controllata da Aramco, ha una flotta di petroliere che sono regolarmente impiegate nella rotta verso gli Usa.
L’ipotesi più drastica – quella di una riduzione generalizzata dell’export di greggio saudita – sarebbe un’arma molto più efficace, oltre che potentissima. Ma Riad difficilmente sgancerà l’atomica. Il petrolio è tuttora la sua maggiore fonte di entrate, da cui le casse dello Stato sono estremamente dipendenti. E anche le relazioni con gli Usa si reggono non solo su interessi politici, ma anche commerciali così importanti che è difficile immaginare che i due Paesi possano recidere i legami.
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