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Così il fondo Elliott detta la linea ai grandi gruppi giapponesi

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Servizio |il ruolo degli attivisti

Così il fondo Elliott detta la linea ai grandi gruppi giapponesi

Paul Singer (Bloomberg)
Paul Singer (Bloomberg)

Il ramoscello d’ulivo era arrivato a Hitachi all’inizio di dicembre del 2017, ma ci è voluto quasi un altro anno perché il gruppo giapponese si rassegnasse all’inevitabile: porre fine alla guerriglia in casa Ansaldo Sts liquidando Elliott. Il fondo americano aveva infatti aperto un altro fronte, ostacolando Hitachi nei piani di cessione della controllata Hitachi Kokusai a Kkr (lo stesso gruppo di private equity che ha appena conquistato Magneti Marelli attraverso la società giapponese Calsonic Kansei). Ma in quel caso Elliott aveva rinunciato a portare all’estremo la sua opposizone, accontentandosi di un doppio rialzo del prezzo di offerta ai soci di minoranza, anche se il mercato mostrava di credere che fosse spuntabile un prezzo ancora più alto.

La svolta è arrivata a ruota dell’annuncio di una buona semestrale per Hitachi: utili netti in crescita del 17% a 352,9 miliardi di yen su ricavi a +3%, nel periodo aprile-settembre in cui il gruppo ha evidenziato l’ottimo andamento dei sistemi ferroviari in Europa. Non solo.

Sarebbe assurdo pensare a una correlazione diretta, ma il prezzo che Hitachi pagherà a Elliott per la quota in Ansaldo Sts è non di molto superiore a quanto il colosso giapponese incasserà dalla cessione, annunciata venerdì, del 63,8% di Clarion a Faurecia (il gruppo francese intende conquistare il 100% dell’azienda di tecnologie audio/video per auto a un totale di 141 miliardi di yen ,Opa totalitaria compresa). È però certo che l’attivismo di Elliott stia accelerando il trend che vede i conglomerati giapponesi impegnati a ridurre il numero di società affiliate che sono quotate.

I miglioramenti nella corporate governance promossi sul piano normativo non sarebbero bastati: è la pressione che viene dal mercato, in particolare dai fondi attivisti, a spingere da un lato a salire al 100% di business considerati strategici, dall’altro a disfarsi di partecipazioni meno essenziali e in strutturale - sia pure potenziale - conflitto di interessi: quando sia la holding sia la “sussidiaria” sono quotate, insomma, indipendenza di quest’ultima e interessi dei suoi soci di minoranza sono a rischio. Non è stato un problema, anzi era la normalità, nella Corporate Japan. Ma poi si sono affacciati i fondi stranieri attivisti, cui hanno cominciato ad affiancarsi soggetti locali non più disposti a ingoiare ogni decisione dell’azionista di controllo, magari nemmeno maggioritario nel capitale. Lo stesso accade in Corea del Sud, dove Elliott ha bloccato i piani di fusione tra Hyundai Mobis e Hyundai Glovis e ha chiesto 670 milioni di dollari in risarcimento allo stesso governo per una fusione risultata connessa a un grave episodio di corruzione.

Elliott non finisce di stupire: le sue strategie si fanno più complesse e meno intuitive. In questi giorni, in Giappone, sembra voler giocare il ruolo decisivo in un altro merger nel ramo componentistica per auto: Alps Electric intende rilevare Alpine Electronics. Fatto raro, il fondo di Singer ha costruito partecipazioni in entrambe le società.

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