Al tavolo, arriva un ragazzo vestito da astronauta della Nasa: ha in spalla una grandissima magnum di Veuve Cliquot rosè (la moda del 2018). Altri camerieri portano cestelli decorati con stelline scintillanti che traboccano di frutta e dolci. Dalle casse arriva la musica più in voga del momento sparata a palla, una ballerina brasiliana coperta di sole piume danza tra i tavoli, un sassofonista ci sale direttamente sopra e si esibisce in un mini-concerto mentre gli ospiti vanno in visibilio.
È lo show standard quando si ordina la bottiglia più costosa in un Nikki Beach, da Dubai a Koh Samui in Tailandia. Alla spiaggia Cala Petra Ruja, in piena Costa Smeralda, pochi chilometri a sud del glamour Cala di Volpe, il ritrovo di vip e miliardari in Yacht, si accede solo via mare. È il più isolato stabilimento Nikki Beach ed è anche l’ultimo inaugurato dalla multinazionale del divertimento da spiaggia: ha aperto la scorsa estate (e peraltro con una stagione ridotta, da luglio a settembre).
Mario Ferraro - l’uomo degli hotel scelto dagli emiri del Qatar per guidare la Costa Smeralda, che ha deciso di aggiungere alla già nutrita lista di intrattenimenti a 5 stelle della meta sarda lo stabilimento balneare più glamour - mostra su WhatApp la foto di uno scontrino: segna 30mila euro ed è stato il singolo conto più alto della stagione del Nikki Beach ospitato dentro la tenuta della Costa Smeralda. Quel conto da nababbi ha rischiato di essere l’unico della stagione ma l’impasse è stata risolta e la spiaggia ha riaperto subito. Ma Peter Higney, il manager del Nikki Beach che va in giro per il mondo a scovare spiagge esclusive e mettere in piedi gli stabilimenti, ha potuto toccare con mano come fare business in Italia sia più difficile che altrove; e in Sardegna, poi, ancora di più, perché i sardi sono giustamente gelosi della loro terra che vogliono preservare la più intatta possibile.
È uno strappo alla regola perché al Nikki Beach non danno mezza informazione: sono un’azienda privata in mano alla famiglia Penrod. È una multinazionale del divertimento da spiaggia con 5mila dipendenti.
Nato nel 1998, esattamente venti anni fa, oggi Nikki Beach è una sorta di mega brand globale dei locali da spiaggia: se ne contano 19 in tutto il mondo (di cui 15 stabilimenti e 4 hotel), dalla Florida alla Turchia. In Italia ce ne sono due, unico paese, assieme alla Spagna, a fare il bis: oltre al neonato club in Sardegna, l’anno scorso ha debutto anche la Versilia.
Ha un merchadising che spazia da una linea di abbigliamento a una collana di cd fino a una rivista patinata; un po’ come il Cafè del Mar di Ibiza di cui è un po’ il concorrente (se non fosse che il locale di Ibiza non è un franchise, per il momento). Il pensiero corre alla Plage de Pampelonne, in quel di Saint-Tropez, la perla della Costa Azzura, altra meta. «Tutti pensano che Nikki Beach sia francese,ma quello di Saint-Tropez è solo il beach club più famoso, l’azienda è americana», racconta Higney. La confusione aumenta perché il 90% del personale è francese, sono i più formati e preparati venendo dalla cultura della Costa Azzurra.
Sul finire degli anni ’90 South Beach a Miami, la punta meridionale della città, è abitata solo da anziani in pensione che vanno a svernare o passare la vecchiaia al sole e mare della Florida. Jack Penrod nel 1998 apre un club in spiaggia, per far divertire la gente: Miami era allora più un ritrovo di lusso per pensionati e SoBe, la punta di Miami Beach cuore della città, reduce dalla tragedia di Gianni Versace, un posto molto tranquillo. Il nome viene dalla figlia Nicole, scomparsa, di cui vuole ricordare in eterno il nome. La formula del Nikki Beach ha un successo immediato: Jack ha l’idea, la moglie Lucy è la Cfo, la donna che fa tornare i conti alla fine dell’anno.
Oggi hanno il problema opposto: la movida che Penrod ha messo in moto è così scatenata che non fa più dormire. Quando si dice il troppo successo.
Il villaggio globale dei super-ricchi è una sorta di circo itinerante. E la geografia del Nikki segue i movimenti del popolo della movida e dei Millennials: da Miami alla Costa Azzurra, al Medio Oriente fino all’Asia, sempre nelle località più esclusive e ricercate.
La Sardegna è l’ultimo tassello: «L’Italia è un meta fantastica per il turismo di lusso, la clientela arriva da tutto il mondo, ma è ancora percepita come un posto troppo costoso o solo per anziani miliardari». Ogni nuova apertura richiede un investimento tra i 3,5 e i 6 milioni di dollari. Su altri numeri (giro d’affari, eventuali utili) l’uomo di fiducia di Penrod non si sbottona, ma si lascia scappare che hanno 3 progetti in ballo e due potrebbero essere ancora in Italia: Taormina è il sogno nel cassetto. L’altra pedina potrebbe essere Capri, che è da sempre il cruccio di Ferraro: nell’isola dell’imperatore Tiberio la stagione turistica dura quasi tutto l’anno; in Costa Smeralda invece solo nei mesi estivi.
Il prossimo passo? Approdare a Wall Street. Su questo le bocche sono stra-cucite. Se uno glielo domanda, Haigney nega che ora ci sia qualcosa di deciso, ma di sicuro è un dossier sul tavolo della famiglia.
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