Il crollo del petrolio non ha ancora soddisfatto Donald Trump. Ma le continue pressioni del presidente americano sull’Arabia Saudita e sull’Opec rischiano di rivelarsi un’arma a doppio taglio.
Gli Stati Uniti infatti non sono più soltanto grandi consumatori di greggio, ma sono anche diventati i maggiori produttori del mondo, con oltre 11 milioni di barili al giorno, e la loro dipendenza dall’estero – benché non ancora eliminata – è oggi decisamente ridotta rispetto al passato.
Un ulteriore calo delle quotazioni del barile, dopo la discesa di oltre il 25% da ottobre, alla lunga potrebbe portare più problemi che vantaggi a Washington.
Ma Trump, in cerca di consenso politico, sembra concentrarsi su un unico aspetto della questione: il costo del pieno per gli automobilisti, che negli Usa – dove le tasse sui carburanti sono irrisorie – può scendere (o salire) in modo vistoso e immediato.
«Vogliamo prezzi del petrolio bassi e l’Arabia Saudita ha davvero fatto un buon lavoro in questo senso», ha ripetuto ieri il presidente, in Florida per il Thanksgiving.
Nel teatrino che anticipa il vertice Opec Plus del 6-7 dicembre, anche Riad ha recitato la sua parte. «La domanda petrolifera a gennaio sarà più bassa, non venderemo petrolio che ai clienti non serve», ha detto il ministro saudita Khalid Al Falih, alludendo alla necessità di tagli produttivi.
In realtà se l’Opec e i suoi alleati rilanciassero il prezzo del petrolio farebbero probabilmente un favore anche agli Stati Uniti. Il Wti, che scambia a 50-55 dollari al barile, è già entrato nella «zona rischio» per lo shale oil, quella in cui frackers – che per inciso sono gli unici tornati a spendere a piene mani nel settore – cominciano a chiudere i cordoni della borsa.
La produzione potrebbe anche continuare a crescere per molti mesi, come ha insegnato la crisi del 2014-2016. Ma l’importanza dell’industria petrolifera è ormai tale negli Usa che una frenata degli investimenti (e il possibile contagio a settori adiacenti, dai servizi all’immobiliare) rischia di pesare sull’economia, al punto da compensare secondo alcuni analisti i benefici di una bolletta energetica più leggera.
Il settore dello shale oil resta peraltro molto fragile dal punto di vista finanziario e secondo alcuni anche geologico, benché il successo sul fronte delle estrazioni finora sia stato strepitoso.
Ad agosto, grazie soprattutto allo shale, la produzione petrolifera Usa (greggio più condensati e altri liquidi) ha registrato una crescita di 3 mbg, la più alta da 98 anni: è come se il mondo avesse guadagnato un altro Kuwait. Entro la fine del 2019, secondo le previsioni del Governo Usa, l’output salirà di altri 1,5 mbg (a 17,9 mbg) e le importazioni nette si ridurranno a 320mila bg, il minimo dal 1949.
I frackers hanno affinato le tecniche e sono diventati bravissimi a spremere fino all’ultima goccia di petrolio dal terreno. Persino le difficoltà legate all’insufficienza degli oleodotti non hanno portato a una frenata dell’output, come ci si aspettava fino a pochi mesi fa: nuove pipeline sono entrate in funzione prima del previsto ed è cresciuto il trasporto con treni e addirittura camion. Ma l’eccessivo sfruttamento dei giacimenti inizia a provocare danni.
La produttività dei singoli pozzi comincia a calare persino a Permian, ha avvertito un mese fa il ceo di Schlumberger, Paal Kibsgaard, convinto che il problema sia sottovalutato: «L’industria deve ancora capire come cambiano le condizioni delle riserve e la produttività dei pozzi, mentre ogni anno continuiamo a pompare miliardi di galloni di acqua e miliardi di libbre di sabbia nel terreno».
C’è anche la sfida finanziaria: nell’ultimo decennio i frackers non hanno mai smesso di bruciare denaro. E l’hanno fatto persino nel terzo trimestre, quando le major – grazie al rally del greggio e a costi ancora bassi – sembravano macchine da soldi.
L’analisi di una trentina di compagnie specializzate nello shale, effettuata da Reuters, evidenzia un cash flow negativo di 945 milioni di dollari nel complesso tra luglio e settembre. Una decina di compagnie sono riuscite – in alcuni casi per la prima volta – a generare cassa e il trimestre è considerato brillante, ma solo perché gli eccessi del passato hanno proporzioni immense.
Il settore ha mandato in fumo oltre 200 miliardi dal 2010 (e 3,9 miliardi nel primo semestre di quest’anno) calcola l’Institute for Energy Economics and Financial Analysis (Ieefa), che prende in considerazione grosso modo le stesse società. Negli stessi anni i frackers hanno accumulato debiti di lungo termine per almeno 46 miliardi, oltre a raccogliere 41 miliardi con emissioni azionarie.
Le banche a quanto pare continuano a fidarsi, gli investitori oggi un po’ meno. I titoli dello shale in borsa stanno soffrendo e diversi fondi attivisti premono per un cambio di marcia. Il problema ora è tornato urgente.
Negli Usa i rendimenti dei junk bond energetici (quasi tutti emessi da società di shale oil) martedì sono saliti ai massimi da 15 mesi, con uno spread di 540 basis point rispetto ai titoli di Stato Usa.
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