Ogni volta che si avvicina la delicata stagione dell’annuncio dei risultati di bilancio, si intensificano le voci di fusione fra Deutsche Bank e Commerzbank, apparentemente sempre più gradita al governo federale e non ostacolata dalla vigilanza di Francoforte, vicina di casa peraltro di un regolatore nazionale che non ha certo brillato per capacità di garantire la stabilità. La Germania è infatti il paese che più ha speso per i salvataggi bancari, senza contare il fatto che altri interventi (gli aiuti europei alla Grecia, la garanzia irlandese sulle obbligazioni bancarie, la nazionalizzazione di fatto di AIG) hanno avuto come beneficiari importanti, se non principali, proprio le banche del paese del rigore finanziario.
L’Europa ha il grave torto di non aver mai avviato una vera discussione su quale sistema bancario vogliamo e ancora una volta rischia di dover prendere atto di una decisione strategica che condiziona l’equilibrio dell’intera area presa solo in base all'interesse nazionale. Tanto più che la stessa riforma del Fondo salva stati e del suo possibile uso condizionato nei salvataggi bancari sembra orientata, così come accaduto per l’introduzione delle regole sul bail in, a favorire principalmente gli interessi tedeschi.
Deutsche è un colosso dai piedi d’argilla, che dal 2007 non ha ancora trovato il suo equilibrio, essendo afflitta da una redditività di base drammaticamente negativa da anni e inseguita da sanzioni legali e richieste di danni da parte di procure, autorità e investitori di mezzo mondo. Il sogno di contendere alle banche di investimento americane la loro posizione egemone si è ormai infranto: come ha cinicamente commentato Financial Times, la Goldman Sachs d’Europa è Goldman Sachs. Fine della storia.
Non occorre essere geni della finanza per capire che una fusione con un’altra banca da sempre in difficoltà come Commerzbank non risolverebbe nessuno dei problemi strutturali: mettere insieme due debolezze non ha mai fatto una banca robusta. Ma è facile capire perché il progetto piace, soprattutto ai politici: consente di «comprare tempo», tributare il solito e trito omaggio verbale alla formazione di un campione nazionale ancora più grande e lasciare la patata bollente al prossimo governo. Per indorare la pillola, basta dire che non costa un pfenning (meglio usare l’unità di misura cara all’uomo comune) né a Deutsche né al contribuente. Sfido: Commerzbank è quotata la metà del suo valore contabile e una fusione carta contro carta migliorerebbe, per la magia della contabilità e degli avviamenti negativi, i ratios patrimoniali della nuova entità. Ma tutti i problemi rimarrebbero immutati, anche se coperti dalla cortina fumogena dei primi piani di rilancio.
I problemi di fondo sono due e entrambi vengono trattati sia a Berlino che a Bruxelles come il classico elefante nella stanza: una presenza ingombrante che fa tanto comodo far finta di non vedere. Il primo è la redditività insufficiente dell’intero sistema bancario tedesco: un problema di lungo periodo che la crisi non poteva che amplificare. Lo dimostra con grande chiarezza un recente paper di uno dei più autorevoli economisti tedeschi, Martin Hellwig che dimostra che l’unico comparto che continua ad avere margini comparabili al resto d'Europa (comunque molto inferiori a quelli americani) sono le casse di risparmio e le banche cooperative. Né si ferma qui, perché elenca anche con puntigliosa precisione tutte le «disavventure» che hanno portato le grandi banche (private e soprattutto pubbliche come le Landesbanken) prima a dilapidare le riserve occulte accumulate nel passato e poi di fatto ad imbottire i propri bilanci di perdite occulte in gran parte emerse con la crisi. Insomma, se c’è un malato nel sistema bancario europeo, va cercato a Nord delle Alpi.
Il secondo problema è quello della struttura del sistema bancario europeo. Davvero abbiamo bisogno di accrescere la dimensione
delle banche più grandi? Davvero le fusioni sono la strada obbligata per recuperare una redditività di base ancora insufficiente
in molti paesi e in molte banche? L’Europa ha pagato un prezzo molto elevato agli interessi dell’industria bancaria e alla
febbre dei campioni nazionali. Un paper dell’European Systemic Risk Board ha dimostrato che il sistema bancario europeo è
troppo grande rispetto alla dimensione dell’economia reale; per di più, tutta la crescita degli ultimi decenni è stata appannaggio
delle prime venti banche. Abbiamo quindi colossi che raggiungono o superano in termini di totale attivo i due trilioni di
euro (come sarebbe il caso dell’ipotetica megabanca tedesca) e per i quali è lecito chiedersi non solo se siano troppo grandi
per fallire (con tutte le distorsioni causate dal sussidio implicito che ne deriva), ma anche per essere gestite in modo efficiente.
L’Europa non può continuare ad avere, di fatto,
solo il criterio dell’interesse nazionale. Altrimenti il problema generale, che tocca l'interesse di cittadini, risparmiatori
e classi produttrici, risulterà sempre più difficile da risolvere.
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