Ancora qualche seduta finanziaria e il 2018 passerà agli archivi. Dal punto di vista finanziari0 è stato un anno complicato dove per i gestori, anche quelli più bravi, è stato molto difficile, quando impossibile, estrarre valore. Eppure era cominciato davvero bene. Fino al 28 gennaio le Borse globali avevano messo a segno un rialzo del 7%, apprezzandosi in valore finale di 6mila miliardi di dollari. In tale data i listini hanno toccato la valutazione più alta di tutta la storia: 87.290 miliardi di dollari. A quei valori le Borse superavano il Pil del mondo che nel 2017 valeva poco più di 77mila miliardi.
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Mantenere quei livelli però non si è rivelato semplice, perché le complicazioni non sono mancate. Nel corso dell’anno i listini hanno dovuto affrontare tre cigni neri che ne hanno compromesso il valore, oggi scivolato a 71mila miliardi di dollari. A conti fatti, dai massimi dell’anno le Borse globali hanno perso 16mila miliardi, quanto il Pil dell’Eurozona per fare un paragone. Le azioni rispetto ai massimi valgono oggi il 17% in meno. Ci sono poi listini che hanno fatto anche peggio. Dai rispettivi massimi Piazza Affari ha perso il 21%, Francoforte il 24% entrando tecnicamente nel “Bear market” (che scatta quando si va giù di oltre il 20%).
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Il primo cigno nero: l’inflazione da salari
Il primo shock per il mondo finanziario è arrivato a fine gennaio quando è stato pubblicato il dato sull’inflazione degli
Usa, salita più del previsto, soprattutto perché alimentata dalla crescita dei salari. Una notizia buona per i lavoratori, ma che gli investitori hanno mal digerito. In quanto salari più alti sono sinonimo di inflazione più alta e inflazione più alta è sinonimo di tassi più alti. E quando
i tassi salgono le azioni tendono a soffrire perché a quel punto le obbligazioni diventano molto competitive. Così il 28 gennaio
è partito un primo violento storno durato fino al 9 febbraio. In questo breve arco temporale i listini globali hanno perso
l’8,5%, oltre 7mila miliardi.
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Il secondo cigno nero: dazi Usa-Cina da minaccia a fatto
Dopodiché le acque si sono un po’ calmate. Il rallentamento dell’Eurozona e dei Paesi asiatici è stato compensato dai dati
Usa che fino al secondo trimestre dell’anno hanno continuato a dimostrare una crescita effervescente. L’azionario globale
quindi ha trovato riparo dietro l’economia Usa. Tuttavia a metà giugno è partita un’altra mini-correzione (-5% in due settimane)
scaturita dai primi dati sugli effetti dei dazi tra Usa e Cina, che nel frattempo si sono trasformati da minaccia a realtà.
A maggio è infatti partita la prima tranche di tariffe doganali mentre lo yuan perdeva terreno nei confronti del dollaro, controbilanciando per Pechino il danno arrecato dagli Usa. La guerra dei dazi non si è affatto conclusa ma è al momento
entrata in una fase di stallo e trattative intense: al G-20 di Buenos Aires di fine novembre i due Paesi si sono dati una
tregua fino al 31 marzo 2019. Nel frattempo gli investitori hanno venduto i settori maggiormente danneggiati - come ad esempio
le auto - e restano guardinghi.
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Il terzo cigno nero: il rallentamento dell’economia globale
Il terzo violento storno è partito nell’ultima parte di settembre ed è tutt’ora in corso. Da allora le Borse globali hanno
perso il 11%. Al ribasso dei listini europei e asiatici si è aggiunto quello di Wall Street che nella prima abbondante metà
dell’anno era l’unica Borsa in attivo. Il terzo cigno nero del 2018 ha invece mandato ko anche la performance di Wall Street.
A preoccupare gli investitori sono state prima le anticipazioni e poi le trimestrali effettive di molte società Usa che hanno
messo le mani avanti sul prossimo futuro annunciando un rallentamento del fatturato per fine anno e con ogni probabilità anche
per il 2019. Quindi, dopo aver digerito il rallentamento dell’Eurozona e dei Paesi emergenti gli investitori hanno dovuto
fare i conti anche con il rallentamento dell’ultima roccaforte che stava sostenendo le quotazioni azionare: la Borsa Usa.
Venuto meno questo pilastro i capitali hanno iniziato a migrare altrove, soprattutto nel più competitivo mercato obbligazionario, considerato anche che i tassi dei titoli Usa a 6 mesi per la prima volta dopo 10 anni sono tornati a rendere più dei rendimenti offerti dalle aziende quotate negli Usa. È quindi scattata una corsa verso la liquidità che non è dato sapere quando terminerà. Solo le banche centrali, e non sarebbe la prima volta, hanno la potenza di fuoco per metterci una pezza.
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