Fondi riservati a disposizione discrezionale del Ceo (o del direttore finanziario) e «paracadute d’oro» temporanei in caso di crisi finanziaria generale: la vicenda pre-processuale di Ghosn - al di là degli aspetti più o meno penali - scoperchia il lato oscuro della gestione finanziaria di una grande azienda. Facile pensare che Nissan non sia la sola a concordare di soppiatto vantaggi per i suoi top manager o definire come «spese promozionali» ingenti pagamenti a mediatori d’affari in Paesi dittatoriali, magari trasformandoli in business partners.
Se Bill Ford in persona chiese a Ghosn di lasciare Nissan, Steve Rattner, “Zar” automobilistico dell’amministrazione Obama ai tempi della crisi finanziaria del 2008, lo pregò di salvare General Motors (prima della soluzione Fiat). A rivelarlo è stato l’ex presidente di Nissan, precisando di aver avuto offerte da 4 grandi Case. Ghosn ha dichiarato che, più o meno ai tempi dell’offerta Gm, dovette decidere se lasciare o meno la società giapponese anche per non finire sul lastrico. Optò per restare, in quanto «un capitano non abbandona la nave nel mezzo della tempesta», ha detto, parlando di «obbligo morale». Senonché la via d’uscita scelta è ora al centro dell’accusa di «aggravated breach of trust». In sintesi: al suo arrivo nel 1999, Ghosn chiese di esser pagato in dollari ma era impossibile. Allora lui sottoscrisse due megacontratti di swap valutario (nel 2002 e nel 2006). Quando arrivò il cigno nero della crisi del 2008, la banca (Shinsei) gli chiese all’improvviso un forte incremento delle garanzie: di fronte a perdite potenziali sui derivati valutari per 1,85 miliardi di yen (circa 17 milioni di dollari), Ghosn spiega che avrebbe potuto scegliere due vie: dimettersi per essere in grado di pagare grazie alla liquidazione, oppure chiedere a Nissan di assumersi per pochi mesi gli oneri, in attesa che lui riuscisse da altri fonti a ottenere i finanziamenti necessari. I suoi legali hanno spiegato che ci fu accordo tra la banca, Ghosn e Nissan secondo cui le eventuali perdite sarebbero state a carico di Ghosn. Anche se Nissan non subì un danno patrimoniale, la procura di Tokyo si focalizza sul ruolo di un uomo d’affari saudita, Khaled Juffali, che aiutò Ghosn a trovare garanzie sostitutive e ricevette in seguito, in 4 tranche, quasi 15 milioni di dollari dal fondo di riserva della società a disposizione del Ceo (varato nel dicembre 2008 e gestito attraverso la Nissan Middle East di Dubai). Ghosn e lo stesso Juffali sottolineano che i pagamenti furono effettuati per azioni di lobbying e business partnership (accesso alla famiglia reale, risoluzione di controversie con distributori, approvazioni e finanziamenti per una fabbrica). Sarà difficile provare il reato: la procura cerca riscontri per invocare un nesso causale tra la questione dello swap e vantaggi patrimoniali indebiti per Ghosn e per il saudita. E ha allargato l’inchiesta ai 63 milioni di dollari di fondi discrezionali pagati da Ghosn a interlocutori-partner mediorientali (anche in Oman e Libano). Sorge spontanea una domanda: quante grandi aziende hanno fondi riservati da impiegare in modo opaco, di cui gli azionisti non sapranno mai nulla in quanto le erogazioni sono nascoste nelle pieghe dei voluminosi bilanci sotto dizioni generiche? E i Ceo-star devono godere di “paracadute d’oro” nemmeno definiti in anticipo?
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