Si arricchisce di una nuova puntata la telenovela di Bitgrail, l’exchange italiano per criptovalute che un anno fa venne proiettato alla ribalta delle cronache mondiali del criptomondo per un ammanco di circa 150 milioni di dollari. Per quella che allora era l’unica piattaforma di exchange presente in Italia si è aperta la via del fallimento con una doppia sentenza del Tribunale di Firenze, che trasforma Bitgrail in una sorta di MtGox italiano.
Il giapponese MtGox era il maggior exchange globale che sospese le attività nel 2014 dopo il presunto furto di bitcoin per un controvalore pari a circa 450 milioni di dollari. Lo stesso è successo un anno fa a Bitgrail, piattaforma che non permetteva la conversione in valuta a corso legale se non passando attraverso una specifica criptovaluta, il Nano. Iniziata come ditta individuale, poi è passata in gestione a una srl nel gennaio 2018. Un mese dopo la società ha denunciato ammanchi per 17 milioni di Nano, per poi cessare la propria attività, anche a seguito della tempestiva richiesta di sequestro di criptovaluta da parte della Procura della Repubblica di Firenze, ottenuta dal Tribunale fallimentare. Agli atti sono stati sequestrati alla società circa 2.345 bitcoin e 4 milioni di Nano per circa 36 milioni di euro e all’amministratore Francesco Firano circa 170 bitcoin e oltre 500.000 euro.
Il Tribunale fallimentare ha disposto una consulenza tecnica (Ctu) da cui emerge, contrariamente a quanto dichiarato da Firano, che gli ammanchi erano iniziati nel maggio 2017. Firano ha sempre sostenuto che l’ammanco era attribuibile a un problema del software che aveva permesso la sottrazione dei fondi, scoperto nel febbraio 2018. La Polizia Postale ha ricostruito i movimenti della piattaforma, indicando i profitti della stessa tra il novembre 2017 e il gennaio 2018 di quasi 2 milioni di euro, di cui i tre quarti per le commissioni sugli scambi e il rimanente per i prelievi effettuati. Quello che è successo è che la piattaforma non ha saputo gestire le richieste reiterate della stessa operazione, permettendo multipli prelievi degli utenti e provocando conseguentemente l’ammanco, dato che le criptovalute venivano spostate in un unico wallet sotto il controllo del fallito, rendendole indistinguibili da quelle appartenute ai singoli utenti.
Queste tipologie hanno portato il Tribunale a inquadrare il rapporto tra l’utente e la piattaforma quale deposito irregolare, con debito della società e della ditta individuale, entrambe soggette a fallimento, nei confronti degli utenti. La Corte ha spiegato che, anche qualora la qualificazione fosse quella del deposito regolare, vi sarebbe comunque responsabilità essendo la perdita avvenuta per fatto imputabile al debitore e, in ogni caso, essendo mancata la tempestiva denuncia al depositante. Nella migliore delle ipotesi, insomma, si tratta di negligenza, nella peggiore si tratta di una vera e propria truffa. A stabilirlo sarà il giudice.
Nel frattempo la procedura fallimentare si trova a dover fare i conti con tutte le difficoltà legate alla composizione tra le norme della procedura fallimentare e la natura della criptovaluta, anche perché traspare che la piattaforma non eseguiva alcun genere di controllo in merito alla identità del registrante, né teneva alcuna traccia degli indirizzi Ip utilizzati in fase di registrazione o per le operazioni, generando incertezze sulla dimostrazione della qualità di creditore.
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