Una professione in via di estinzione, oppure nel bel mezzo di una salutare selezione darwiniana? Il crollo del prezzo del Bitcoin, che dai massimi di fine 2017 ha perso l’82%, sta mettendo con le spalle al muro tanti «minatori»: cioè coloro che, con giganteschi computer e con un enorme consumo di elettricità, “estraggono” i Bitcoin.
Secondo uno studio di JP Morgan, questa attività non è più conveniente: per estrarre un solo Bitcoin si spendono infatti mediamente 4.060 dollari, costo superiore all’attuale prezzo della criptovaluta che ieri quotava a 3.414 dollari. Eppure altri dati, di Blockchain.com, sembrano mostrare che l’attività dei “minatori” si stia riprendendo dopo una certa debàcle nei mesi scorsi: la loro potenza computazionale a livello mondiale, dopo essere diminuita, ultimamente è infatti tornata a crescere. Questo significa che i “minatori” stanno tornando a “minare”. E che il Bitcoin, nonostante il tracollo del prezzo, ancora ha un esercito di persone che investono in super-computer e in elettricità per cercarli.
Estrarre costa 4mila dollari
Per capire questi dati bisogna addentrarsi nel mondo della criptovaluta più famosa al mondo. I minatori sono nodi della rete
che danno la potenza computazionale necessaria per finalizzare le transazioni in Bitcoin: di fatto, con giganteschi cervelloni
elettronici in grado di fare calcoli altrettanto giganteschi, “estraggono” nuovi Bitcoin. Questa attività era molto redditizia
quando il Bitcoin valeva oltre 10mila dollari: perché il costo per estrarre un Bitcoin era molto inferiore. Era una vera manna
quando la criptovaluta valeva 18mila dollari e volava verso i 20mila. Ma ora i margini sono troppo bassi. Anzi: ormai in molte
parti del mondo sono negativi. Questo perché, secondo i calcoli di JP Morgan appunto, costa 4.060 dollari “estrarre” (anche
se questo termine tecnicamente non è esatto) ogni Bitcoin.
Dove conviene ancora
Bene inteso: questo è il costo medio, che deriva in gran parte da quanto si paga l’energia elettrica in giro per il mondo.
In alcuni posti è ancora conveniente lavorare come “minatore”: per esempio in Cina, dove il costo di estrazione - sempre secondo
i calcoli di JP Morgan - è intorno ai 2.400 dollari. E questo è il punto, che ha evitato l’estinzione dei minatori. «Con il
calo del prezzo del Bitcoin i minatori che non erano efficienti hanno dovuto spegnere le macchine, dato che nessuno continua
a svolgere un lavoro come questo in perdita - osserva Ferdinando Ametrano, direttore del Digital Gold Insititute e professore
di Bitcoin all’Università Bicocca di Milano-. Ma la competizione in questo campo è tale che probabilmente sono entrati in
gioco nuovi palyer oppure alcuni di quelli che si sono ritirati hanno aperto in zone del mondo dove è più conveniente svolgere
questo tipo di attività. E la ripresa della crescita di potenza computazionale conferma in maniera empirica che ci sono ancora
margini di redditività».
Per questo, a suo avviso, la potenza computazionale dei minatori nel mondo, dopo il forte calo, si sta riprendendo: perché il settore è probabilmente passato attraverso una selezione darwiniana. L’oro digitale, di certo, oggi brilla molto meno di un tempo. Ma forse è presto per dire che non brilla più.
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