Dodici mesi fa l’universo delle banche centrali sembrava aver preso una direzione ben definita verso una riduzione di quello stimolo monetario che negli anni precedenti era servito per superare la crisi finanziaria. E in effetti nel corso del 2018 le mosse al rialzo dei tassi di interesse hanno superato per quantità quelle al ribasso (87 a 46), per la prima volta dopo molto tempo. Sembrava una tendenza destinata a proseguire, ma i primi 50 giorni del 2019 mostrano una decisa retromarcia: di nuovo 8 mosse espansive contro le 4 restrittive. Certo, si tratti di dati ancora parziali, per lo più legati a banche «minori», ma il cambio di direzione appare evidente, prima che nei fatti nelle stesse parole e negli atteggiamenti dei vari banchieri centrali.
Partiamo anzitutto dalla Federal Reserve: quando a dicembre la Banca centrale degli Stati Uniti ha operato il quarto, atteso, rialzo del 2018, gli stessi banchieri di Washington prevedevano due ulteriori «strette» nel corso di quest’anno. Già a gennaio però Jerome Powell aveva corretto il tiro, facendo capire che nel 2019 difficilmente ci saranno ulteriori rialzi. In teoria il presidente della Fed aveva chiesto «pazienza», notando che «la crescita ha rallentato in alcune grandi economie internazionali», e sostenuto che le successive decisioni sarebbero «dipese interamente dai dati», ma adesso è il mercato stesso a ipotizzare una vera marcia indietro: cioè un taglio dei tassi che al momento sono fra il 2,25% e il 2,5 per cento.
I dubbi di Draghi
Simile la situazione in Europa, dove però il costo del denaro è ancora a zero: si pensava che Mario Draghi potesse lasciare
la presidenza Bce a novembre con almeno un rialzo dei tassi ma ora, complice l’inatteso (almeno nelle proporzioni) rallentamento
della ripresa economica, la maggior parte degli analisti appare scettica. E se è oggettivamente difficile (se non altro per
motivi tecnici) ripristinare quegli acquisti di attività appena terminati alla fine del 2018, si dà per lo meno per scontato
che vengano prorogate in qualche forma le operazioni di rifinanziamento a tasso agevolato e finalizzate alla concessione di
prestiti alla clientela (T-Ltro), operazioni in scadenza sulle quali si discuterà nella riunione del prossimo 7 marzo, come ha confermato ieri il capoeconomista della Bce, Peter Praet.
Ragionando in termini più generali Peter Botoucharov, Sovereign Analyst Fixed Income di T. Rowe Price, ammette che «siamo in una situazione in cui le banche centrali dovranno essere molto caute: non hanno la possibilità di alzare i tassi e, al contrario, qualcuno inizierà a pensare che si debba di nuovo abbassare il costo del denaro, come nelle ultime settimane è per esempio accaduto in India ed Egitto e come potrebbe avvenire a breve anche in Turchia».
Meno mosse sui tassi, ma attenzione ai bilanci delle Banche centrali
Questa prudenza nella politica monetaria, che in termini anglosassoni viene definita shallow rate hiking cycle e che si potrebbe riassumere in una sorta di «navigazione a vista o in acque poco profonde» sembra destinata a tradursi in
un minor numero di movimenti da parte degli istituti centrali . Rispetto alle 133 viste nel 2018 «quest’anno le azioni sui
tassi si ridurranno in misura notevole, forse saranno a malapena la metà», nota Botoucharov, che lancia quindi un avvertimento
ai mercati: «Nei prossimi mesi - sostiene l’analista - avremo una volatilità più accentuata proprio perché non abbiamo certezza
su quale direzione prenderanno le Banche centrali». L’attenzione rischia quindi di spostarsi dal livello dei tassi a quello
dei bilanci delle stesse «perchè non acquistare più obbligazioni sul mercato - sottolinea Botoucharov - è una forma di stretta
monetaria, in grado di influenzare l’andamento degli indici».
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