Su un punto sono tutti d’accordo: l’ecosistema italiano delle startup e dell’innovazione ha bisogno di fare un salto di qualità. E, come è già avvenuto altrove, l’intervento pubblico può essere l’acceleratore decisivo del mercato. A patto che agisca nei modi giusti e sulle leve giuste. Questa l’attesa dei player del settore, che hanno accolto con interesse il grande cantiere del venture capital aperto dall’ultima legge di bilancio: ora l’attesa è su come avverrà la messa a terra dei diversi strumenti con i passaggi attuativi, e qui indicazioni (e perplessità) non mancano. Per sentire il polso del mercato si terrà domani a Torino la presentazione del Fondo Nazionale Innovazione. Proprio in vista dell’appuntamento torinese, Il Sole 24 Ore ha voluto organizzare un forum per mettere intorno a un tavolo i protagonisti del mercato, a cui è stato chiesto di dare indicazioni pratiche sulle misure necessarie.
«Far crescere il sistema dell’innovazione italiana attraverso le startup, innovando in maniera disruptive quello che c’è, è fondamentale. Andare in questa direzione con investimenti, facendo sì che il mercato abbia più risorse per compiere operazioni di crescita è un punto nodale, in un mercato italiano che oggi può esprimere eccellenza, talento e aziende capaci di affrontare le sfide nazionali e internazionale. In questa direzione in Italia siamo in ritardo. Gli investimenti in startup nel nostro Paese sono sei volte inferiori alla media europea» ragiona Marco Gay, amministratore delegato di Digital Magics. Un ritardo che va assolutamente recuperato se l’Italia non vuole essere tagliata fuori dal rinnovato fermento europeo. Proprio per questo l’iniziativa italiana sembra oggi ancor più tempestiva: «Sarà per l’Italia fondamentale dare il suo contributo all’impostazione e futura governance dell’European Innovation Council, con cui la Commissione Europea investirà più di un miliardo di euro all’anno su startup e imprese innovative» sottolinea Alberto Di Minin, professore associato dell’Istituto di management della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa.
Positiva l’accoglienza anche da parte dell’associazione dei fondi di venture capital. «Questa legge è un’opportunità straordinaria per far fare al venture capital italiano un salto di qualità», osserva Anna Gervasoni, direttore generale di Aifi e dell’osservatorio Vem dell’università Liuc. Proprio Aifi, fa notare, «ha affrontato i temi tecnici che vanno sciolti per consentire ai Pir di investire nei fondi di venture capital e ha indicato le soluzioni. Il potenziale di crescita esiste e auspichiamo che oltre al rafforzamento degli operatori esistenti ne nascano altri. Un ruolo cruciale può svolgere il fondo che nascerà in Cdp se si dedicherà principalmente all’attività di fondo di fondi. Da ultimo, andrà data ulteriore enfasi al corporate venture capital».
Questione di governance
È indubbio che la governance, che sarà disegnata per portare i fondi al mercato, sarà determinante. La prima domanda a cui si dovrà rispondere è: Chi farà che cosa? «Credo che la governance sia fondamentale. Chi gestirà queste risorse, oltre ad avere le adeguate professionalità dovrà rispettare l’importante ruolo che gli è stato assegnato per promuovere il mercato e gli operatori di venture» sottolinea Gervasoni. Un ruolo di primo piano, nelle intenzioni, è già stato assegnato a Cdp, a cui sarà affidato il nuovo Fondo nazionale per l’innovazione che assorbirà Invitalia Ventures con i suoi 440 milioni in fondi. Di fatto, però, i capitali da gestire saranno molti di più: 90 milioni nei primi tre anni come voce di bilancio del Mise, il 15% dei dividendi incassati dal Tesoro dalle controllare pubbliche (stime indicano 300-400 milioni) e il 3,5% della raccolta dei Pir. Ma come verranno gestiti questi capitali? «È necessario che grande parte della dotazione del fondo venga impiegato in modalità indiretta, capitalizzando team indipendenti di venture capital capaci di attrarre ulteriore capitale privato sul mercato» sottolinea Massimiliano Magrini, managing partner di United Venture, che prosegue: «È poi importante che esista una pluralità di soggetti qualificati con competenze di mercato capaci di finanziare team di vc».
Il mercato dei venture capital
Una delle questione aperte è se i venture capital siano pronti ad assorbire una massa di capitali come quella ipotizzata, che - si diceva - potrebbe arrivare a un miliardo. «L’attuale mercato dei fondi oltre che esprimere alte professionalità e aver conseguito buoni rendimenti, è in grado di raccogliere sul mercato oltre 900 milioni di euro nei prossimi 12 mesi», spiega Gervasoni, aggiungendo inoltre: «Poi ci saranno altri operatori nuovi». Concorda Magrini: «Ogni ecosistema evoluto si è sviluppato grazie a strumenti ibridi pubblico privato, dove il capitale privato assicura che non ci sia selezione avversa degli investimenti ed il capitale pubblico compensa il profilo di rischio del capitale privato giustificata dalla ricaduta complessiva Dell attività di investimento».
E i capitali privati, che potrebbero affiancarsi a quelli pubblici, non mancano. «Dalla prospettiva del multi family office internazionali registriamo abbondanza di risorse con un favorevole appetito di rischio verso asset class come venture capital e private equity per la crescita orientati alla ricerca di rendimenti che la finanza tradizionale fatica a dare. Le misure proposte nella manovra possono rappresentare per l’Italia l’innesco per stimolare i capitali privati lungo la filiera in grado di renderla più efficiente in termini di capacità di raising, exit e performance» spiega Mattia Rossi, executive director di Cherry Bay Capital.
Ma i capitali non bastano. «Questa iniziativa deve andare nella direzione di favorire la creazione di una catena di valore, con capitali che creino un deal flow di qualità per favorire gli investimenti nelle fasi successive. Le istituzioni, invece, si dovrebbero concentrare nel favorire la crescita dell’ecosistema dell’innovazione perché si diventi un hub internazionale di attrazione di talenti ed investitori i» sottolinea Gay, aggiungendo: «È necessario costruire un sistema Paese in grado di attrarre dall’estero capitali, talenti e startup. Bisogna lavorare su tutta la catena, creare la filiera».
Il ruolo delle aziende
Un player che non può mancare per lo sviluppo dell’ecosistema in Italia è quello delle aziende. Se è pur vero che nel nostro Paese non si hanno dei campioni mutinazionali di innovazione e tecnologia come negli Usa e in Cina, è altrettanto vero che l’innovazione può essere “raccolta” e valorizzata anche dalle medie imprese italiane che devono andare a competere su mercati globali. E questo può avvenire lungo direttrici diverse: dal corporate venture capital all’open innovation, fino al ruolo fondamentale che le imprese hanno al momento dell’exit dei fondi. «Ad oggi le aziende italiane non comprano startup. È ancora un processo molto faticoso e posso testimoniarlo personalmente. Il problema, però, è che nel 98% dei casi le exit dei fondi dalle startup avviene attraverso l’acquisizione da parte di un industriale e solo nel 2% dei casi attraverso un’Ipo. Un dato questo che dimostra come le corporate siano un fattore imprescindibile per la crescita del mercato» osserva Paolo Cellini, venture Partner di Pi Campus.
Più complesso lo sviluppo di un corporate venture capital maturo, se non attraverso forme di consorzio di aziende. «Il corporate venture capital rappresenta un elemento chiave per la crescita dell’ecosistema dell’innovazione a completamento degli strumenti di venture capital» osserva Rossi, che prosegue: «L’Italia registra ancora metriche finanziarie subottimali che evidenziano la necessità di incentivare in primis le aziende di sistema per il Paese, ma anche le midcap, alla cultura del rischio e alla comprensione delle posizioni di minoranza attraverso agevolazioni per veicoli dedicati, per le acquisizioni non consolidabili a bilancio, per le potenziali perdite delle partecipate».
Il ruolo dei business angels
Che il sistema sia cresciuto molto negli ultimi anni in Italia viene riconosciuto da più parti e all’interno di questo un ruolo sempre più solido viene svolto dai business angels. Per questo ci si trova di fronte alla necessità di nuovi strumenti per far fare un salto di qualità al settore: «Sarebbe necessario definire dei criteri che qualifichino la mentorship fornita da business angels a fronte di equity e questo per qualificare gli investitori, realmente portatori di un valore aggiunto alla startup. Questo eviterebbe l’abuso di ottenere quote di equity a fronte di non meglio identificati servizi di consulenza e mentorship inconsistenti, a danno delle startup» spiega Milena Prisco, avvocata dello studio Cba e rappresentante di Iban, associazione italiana dei business angel.
Resta il nodo da sciogliere delle Sis, società d’investimento semplici, che permetterebbero una maggiore strutturazione degli investimenti dei business angels: «L’introduzione delle Sis è auspicabile dal momento che la regolamentazione di veicoli con un capitale di rischio raccolto presso investitori professionali o anche i business angels, significherebbe promuovere “in chiaro” un’attività ormai diffusa di investimento collettivo di piccolo taglio, che è preziosa a finanziare le pmi e le startup non quotate soprattutto in fase seed. In questo modo si farebbero emergere tantissimi veicoli e club deal dalla zona grigia di investimenti compiuti con holding di partecipazione che talvolta rischiano di operare nelle aree riservate ai soggetti vigilati» osserva Prisco.
Sul fronte della fiscalità, poi, chi opera nel mercato chiede un passo ulteriore: «Negli ultimi anni è cresciuto l’apporto di capitale degli investitori e venture sotto forma di prestiti convertibili e investimenti in semi-equity (Sfp) che prevedono di fatto un finanziamento con diritto di ingresso nel capitale in fasi successive e spesso subordinatamente al raggiungimento di predeterminati obiettivi di crescita» sottolinea Prisco, aggiungendo: «Si tratta di strumenti che consentono una strategia di investimento strategica e per step che però non beneficia delle agevolazioni fiscali che si applicano solo all’investimento diretto nell’equity. Sarebbe interessante comprendere se ci fosse spazio per prevedere l’applicazione delle agevolazioni fiscali anche a questi strumenti da far scattare o al momento dell’investimento o al momento della sua conversione nel capitale della società».
L’offerta delle startup
Resta da capire, infine, se l’offerta delle startup in Italia sia adeguata ai capitali che arriveranno. Magrini su questo non ha dubbi: «La pipeline c’è. Piuttosto, le start up devono avere l’ambizione di diventare grandi e globali». Potenzialità solo in parte sfruttare anche per la ricerca universitaria: «È importante intervenire a monte del deal flow, sviluppando quegli strumenti, mentalità e professionalità che traducono la ricerca in idee di azienda. I ricercatori italiani, in termini di paper e citazioni ricevute sono tra i più produttivi al mondo, ma qualche cosa si blocca nel passaggio tra laboratorio a impresa» spiega Di Minin, che sottolinea: «In Italia sarebbe necessario rimuovere il professor privilege, che lascia ai professori la titolarità di proprietà intellettuale sviluppata con fondi pubblici, invece di assegnarla alle università o centri di ricerca dove la ricerca è stata condotta».
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