La Federal Reserve ha un cruccio non da poco: sta cercando a suon di parole di irripidire la curva dei rendimenti dopo l’inversione (per la prima volta in 12 anni) in data 21 marzo. Lo sta facendo perché quando la curva è invertita si alimentano le attese di una recessione (in media la contrazione economica arriva circa 17 mesi dopo l’inversione). Quindi “risistemare” la curva è diventato l’obiettivo numero uno in questo momento della banca centrale statunintese. Perché altrimenti si creerebbe nella logica degli investitori un effetto palla di neve, una sorta di profezia che si autoavvera. Con ricadute sui mercati che a quel punto potrebbero creare i presupposti effettivi per una caduta del Pil.
La curva si è invertita dopo l’ultimo consiglio direttivo della Fed (20 marzo) da cui è emerso un atteggiamento più accomodante del previsto: il governatore Jerome Powell ha comunicato che nel 2019 non ci saranno rialzi dei tassi (contrariamente alle attese di due strette) e che, altro elemento di rilevanza cruciale per l’andamento dei mercati finanziari, a partire dall’autunno verrà interrotto il processo di riduzione del bilancio.
Questo processo è stato avviato lo scorso ottobre. Da allora la Fed non sta più reinvestendo integralmente l’ammontare dei titoli in portafoglio che vanno in scadenza, drenando liquidità per circa 50 miliardi di dollari al mese. Il bilancio Fed - che aveva superato i 4.000 miliardi - si sta riducendo e stando alle proiezioni sarebbe dovuto scendere fino a 3.300 miliardi. La Fed ha fatto capire che al momento arriverà intorno ai 3.700 e poi si fermerà.
Tanto il rinvio delle strette monetarie quanto lo stop alla riduzione del bilancio sono state considerate dai mercati come delle mosse accomodanti. Da qui è partita la corsa ai titoli di Stato, con buona tenuta anche delle azioni. L’effetto distorto però è che la curva dei rendimenti si è invertita. I tassi dei titoli a 3 mesi hanno superato quelli con scadenza a 10 anni. Innescando il conto alla rovescia per l’arrivo della prossima recessione.
La Fed vuole bloccare questo conto alla rovescia e - consapevole che la «politica monetaria si fa per il 98% con le parole» (citazione dell’ex governatore Ben Bernanke) - sta provando a rendere più ripida la curva. Vanno lette in questo senso le ultime dichiarazioni del numero uno della Fed di Chicago, Charles Evans, secondo cui non ci saranno rialzi non solo per tutto il 2019 ma anche per metà del 2020. A queste parole si è unito poi Stephen More, da pochi giorni nominato all’interno del board della Federal Reserve. Considerato un uomo di Donald Trump (il presidente degli Usa da tempo polemizza con i rialzi dei tassi operati dalla Fed chiedendo invece dei tagli) More ha detto che la Fed dovrebbe tagliare i tassi di 50 punti base.
Parole che qualche effetto lo hanno avuto. Come evidenzia il Grafinomix di giornata i tassi a breve sono calati (quelli a 1 mese dal 2,46% al 2,4% e quelli a 3 mesi dal 2,46% al 2,42%). La curva è ancora invertita ma non più sulla distanza 3 mesi/10 anni ma in quella 3 mesi/7 anni. In pochi giorni, a suon di dichiarazioni la Fed ha messo una pezza a 3 anni della curva. Ma ne mancano ancora 7 per provare ad annullare completamente qull’inversione che è prodromica alla recessione. E sarà certo una bella partita. Probabilmente più politica che monetaria.
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