C’è un milione e mezzo di partite Iva che ci sta pensando. Il nuovo regime forfettario (la flat tax per dirla nel gergo della maggioranza gialloverde) con le soglie d’ingresso portate a 65mila euro di ricavi o compensi è una calamita che potrebbe attrarre 500mila professionisti e un milione di piccoli o micro-imprenditori. Un potenziale che emerge dalla lettura delle statistiche relative alle dichiarazioni dei redditi, considerando le classi per volumi d’affari. Naturalmente non c’è un automatismo che porti a dire che tutti entreranno. Ma il trend sembra quello che le fila del regime agevolato siano destinate a ingrossarsi notevolmente. Ancora prima delle ultime modifiche che hanno eliminato altri vincoli come quelli sui beni strumentali e su dipendenti e collaboratori, le dichiarazioni dei redditi presentate nel 2018 (anno d’imposta 2017) hanno fatto registrare una crescita del 40,9% dei forfettari che da soli si attestavano a 680mila contribuenti. A questi, però, vanno sommati anche quanti si trovavano ancora nel vecchio regime dei minimi in via di estinzione. E, se si contano anche le circa 200mila nuove adesioni al momento di apertura della partita Iva nel 2018, a fine dello scorso anno, è ragionevole ipotizzare che già tra 1,3 milioni di soggetti fossero in regime di tassa piatta sui redditi, che oltre all’Irpef sostituisce anche le relative addizionali e l’Irap. Se poi quel milione e mezzo tra autonomi e imprenditori potenzialmente interessati al forfettario si fosse o dovesse già decidersi (anche nei prossimi anni) a fare il grande passo, l’esercito di quanti hanno scelto di abbandonare la progressività dell’Irpef diventerebbe davvero considerevole. Complessivamente si potrebbe arrivare fino a 2,8 milioni.
Forse anche per questo, nell’ottica di evitare una fuga totale dalla “vecchia” Irpef ancor più se l’anno prossimo l’asticella dei ricavi o compensi sarà alzata fino a 100mila euro (come già prevede l’ultima legge di Bilancio, anche se con sistema analitico e non a forfait per la determinazione dei costi), qualche paletto potrebbe arrivare nei prossimi giorni. Con il decreto crescita in arrivo, infatti, il datore di lavoro nella flat tax sarà obbligato a effettuare le ritenute sugli stipendi erogati ai dipendenti con tanto di recupero dei primi tre mesi del 2019.
A conti fatti, comunque, la convenienza in termini di risparmio d’imposta è sensibile. Come dimostrano gli esempi a lato, si potrebbe arrivare a pagare anche 7mila euro in meno, con una riduzione di quasi il 50 per cento. Ma anche qui non è possibile generalizzare, perché chi, ad esempio, sostiene costi molto più elevati della percentuale di forfettizzazione prevista per la propria categoria oppure ha elevate detrazioni d’imposta potrebbe anche scegliere di restare con l’Irpef “tradizionale”. In più c’è una tassa d’uscita rappresentata dalla rettifica della detrazione Iva sugli acquisti effettuati negli anni precedenti che i contribuenti in arrivo dal regime ordinario dovrebbero sobbarcarsi in termini di maggiori spese.
In ogni caso la fuga verso la flat tax è già in atto dal 2015, anno dal quale appunto è entrato in vigore il forfettario che, a differenza dei minimi, consente l’ingresso anche a chi ha la partita Iva già aperta. Se si guarda solo agli autonomi, la platea di quanti avevano un’Irpef progressiva ha cominciato ad assottigliarsi del 7,3% scendendo a poco più di 850mila unità, per poi arrivare con le dichiarazioni 2018 (i cui dati sono stati resi noti giovedì dal Mef) a circa 741mila. A fronte di questo calo, però, c’è stata una ripresa del reddito medio dichiarato (con tutti i limiti che una media può contenere) che sono ritornati a livelli pre-crisi, considerando i valori in termini reali: nell’anno d’imposta 2011 l’importo per gli autonomi era di 44.521 e nell’anno d’imposta 2018 si attesta a 43.510 euro. Con una ricaduta anche sullo spread che da sempre separa i redditi medi dichiarati dagli autonomi da quelli dei dipendenti. Il differenziale è tornato ad allargarsi dopo il tracollo subito dagli autonomi in piena congiuntura economica negativa, quando si era raggiunto il picco minimo di 15.185 (anno d’imposta 2014), arrivando secondo le ultime statistiche disponibili a quasi 23mila euro.
Senza considerare poi l’abisso che separa i redditi di lavoro autonomo da quelli di pensione, in cui nel 2017 c’era una differenza media di oltre 26mila euro.
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