Le decisioni di politica monetaria hanno impatto su tutte le classi di investimento ma sicuramente valute e obbligazioni tendono ad esserne maggiormente influenzate dalle mosse dei banchieri centrali. Una strategia espansiva come può essere un taglio dei tassi ha in genere l’effetto di abbassare i rendimenti dei titoli governativi e deprezzare la moneta di riferimento. Una mossa restrittiva per contro ha il potere di innescare una reazione opposta. Non sempre tuttavia questo copione viene seguito. È il caso ad esempio della decisione di politica monetaria che più di tutte ha influenzato l’andamento dei mercati negli ultimi mesi: la svolta Fed sui tassi.
Fino a novembre dello scorso anno i mercati davano per scontato che la banca centrale guidata da Jerome Powell avrebbe proseguito nel suo percorso di “normalizzazione” con una nuova serie di rialzi dei tassi anche per quest’anno. Ma i timori di un possibile rallentamento dell’economia globale hanno spinto la banca centrale Usa a rinviare ogni decisione sui tassi e a interrompere il piano di riduzione del bilancio (ossia il mancato rinnovo dei circa 4000 miliardi di titoli acquistati nell’ambito del Qe).
Questa svolta ha avuto effetti notevoli sui mercati: dalle azioni, che hanno rapidamente recuperato le perdite del 2018, ai bond, i cui rendimenti sono scesi in tutto il mondo in scia ai Treasury, passando per materie prime e i mercati emergenti quasi tutte le asset class hanno reagito alla svolta Fed sui tassi. Tutte eccetto una: il dollaro.
Ci si sarebbe aspettati un calo delle quotazioni del biglietto verde a fronte di una tale inversione di rotta ma così non è accaduto. Anzi: il dollaro si è addirittura apprezzato rispetto a buona parte delle sue controparti. Rispetto all’euro ad esempio il dollaro ha guadagnato circa l’1,8% da inizio anno. Il dollar index, che misura le quotazioni del biglietto verde rispetto alle principali controparti, da inizio anno risulta in rialzo dello 0,35 per cento.
Perché questa reazione? Le ragioni sono diverse. Una di queste è che la mossa espansiva della Fed ha innescato decisioni analoghe anche da parte di altre banche centrali. La Bce, ad esempio, ha messo nel congelatore ogni ipotesi di stretta e varato una nuova tornata di finanziamenti agevolati al settore bancario provocando favorendo in tal modo un deprezzamento dell’euro. A fronte della debolezza di altre valute c’è poi da dire che, al netto della mossa Fed, il dollaro ha potuto beneficiare di un quadro macroeconomico ancora decisamente positivo negli Stati Uniti come dimostra la recente rilevazione sul Pil.
Nonostante un ciclo in espansione che dura da oltre 10 anni quindi la macchina continua a correre e ciò continua a sostenere le quotazioni del dollaro. C’è tuttavia chi crede che questo trend non sia sostenibile ancora a lungo. Ad esempio Vasileios Gkionakis, capo della strategia per il mercato valutario di Lombard Odier, secondo cui è da mettere in conto un rallentamento dell’economia una volta che gli effetti degli stimoli fiscali varati dall’amministrazione Trump andranno a scemare. Secondo il gestore il dollaro risulta attualmente sopravvalutato di circa il 5 per cento. Secondo il gestore «gli impulsi provenienti da una Fed accomodante e l'impatto fiscale in declino saranno probabilmente affiancati da considerazioni sulle valutazioni, con una conseguente spinta al ribasso del dollaro statunitense».
L’opionione che il dollaro sia sopravvalutato risulta peraltro piuttosto comune tra gli addetti ai lavori. Ben il 45% dei gestori che hanno partecipato all’ultimo sondaggio di Bank of America Merrill Lynch ha dichiarato di considerare sopravvalutata la moneta Usa. È da 16 anni che non si vedeva una quota tanto elevata di gestori convinta dell’eccessiva forza del biglietto verde.
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