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Questo articolo è stato pubblicato il 08 maggio 2012 alle ore 10:59.

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«Il genere umano è di fronte a un passaggio-chiave della sua storia. Assistiamo alla perpetuazione delle disparità dentro e fra le nazioni, a un aggravamento di povertà, fame, malattie e analfabetismo, nonché al continuo deterioramento dell'ecosistema dal quale dipende il nostro benessere. (...) Nessuna nazione può risolvere tutto questo da sola; ma insieme si può: con un'alleanza globale per lo sviluppo sostenibile».

È il preambolo dell'Agenda 21 – che sta per "agenda del Ventunesimo secolo" – firmata da 178 paesi del mondo, esattamente vent'anni fa.
Vent'anni più tardi, visto che le disparità, la povertà e la pressione sulle risorse sono soltanto aumentate, è arrivato il momento di controfirmarla. O almeno è quel che auspicano ai piani alti delle Nazioni Unite, che dal 20 al 22 giugno organizzano la Conferenza sullo sviluppo sostenibile a due decenni esatti di distanza da quel Summit della Terra di Rio, che fu un caso unico, e quindi storico, di concordia internazionale.

Guarda caso, di nuovo a Rio de Janeiro: quasi che la contraddittoria metropoli brasiliana, potesse portare fortuna nello sciogliere le contraddizioni del mondo. Peccato che i Governi, dopo aver firmato l'Agenda 21, abbiano fatto di tutto, fuorché quell'«alleanza per lo sviluppo sostenibile» che avevano promesso»: l'Unfccc (la Convenzione per la lotta ai cambiamenti climatici) e la Cbd (la Convenzione sulla diversità biologica) – entrambe figlie del Summit della Terra – sono state minate proprio dalla mancanza di concordia.
Sui perché di questo oceano che divide il dire dal fare, si potrebbe scrivere un libro. Ma forse basterebbe dire che c'è una insostenibile discrepanza, fra l'anelito di sterzare il cammino del pianeta nel lungo periodo e un mandato elettorale di quattro o cinque anni.

Ecco perché, subito prima del Summit, l'Onu di Ban-Ki Moon ha convocato anche un Corporate Sustainability Forum: 2mila partecipanti in rappresentanza di centinaia di aziende, perlopiù multinazionali. In poche parole, prima dei Grandi della Terra, a Rio s'incontreranno anche i grandi amministratori delegati. I quali, avendo a che fare con gli azionisti invece che con gli elettori, devono per forza pensare anche al lungo termine.
«Le aziende che già fanno sostenibilità, come General Electric, Intel e Nike, stanno vedendo il ritorno finanziario di strategie, attività e produtti costruiti tenendo a mente che l'economia globale ha un problema di risorse e di emissioni di anidride carbonica», assicura Mindy Lubber, presidente di Ceres, la coalizione americana di aziende, investitori e organizzazioni ambientali che promuove la sostenibilità dei mercati.

Proprio la settimana scorsa, Ceres ha pubblicato un'analisi sulle performance di sostenibilità di 600 grandi imprese d'America, il paese che più di ogni altro ha bloccato la strada a un'intesa globale sulle emissioni-serra. Vengono applaudite le società menzionate dalla signora Lubber, ma anche Coca-Cola (che in sei anni ha migliorato del 20% l'uso di acqua), la Emc (che innovando ha migliorato l'efficienza dei data center che costruisce) e molte altre. È vero che solo il 26% delle imprese analizzate ha passato il test. Ma quel 26% ha fatto – in termini pratici – molto più dei Governi del mondo. E per di più guadagnandoci: in termini di risparmio sulla bolletta energetica e idrica, di innovazioni da brevettare o semplicemente in termini d'immagine agli occhi degli stakeholder: azionisti, dipendenti, clienti.

Eppure, i Governi ci vogliono. Le imprese hanno bisogno di certezze normative, per immaginare il lungo periodo. E anche di incentivi alla sostenibilità, tutto il contrario di quei mille miliardi di dollari di sussidi che ogni anno gli Stati riservano a combustibili fossili, pesca e agricoltura. Ci vogliono ancora i Governi, per sciogliere le contraddizioni del mondo.

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