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Questo articolo è stato pubblicato il 12 giugno 2012 alle ore 11:12.

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Fuori dall'ufficialità i grandi fornitori di tecnologia lo ammettono: l'errore dell'informatizzazione che ha investito il paese negli anni Novanta è stato quello di aver lasciato ai margini le piccole e medie imprese. L'ingresso in azienda dei primi software di gestione, come l'Erp o il Crm, è stato lento e faticoso anche perché questi programmi nascevano per la grande impresa. Per adeguarli alle esigenze dei piccoli ci sono voluti anni. Questo rischio, in qualche modo, lo stanno vivendo oggi le pmi con il cloud computing.

I benefici di poter usare i servizi informatici, applicazione e potenza di calcolo on demand solo quando serve, pagando a consumo, sono maggiori per una startup o una attività di piccole dimensioni che può crescere in base alle commesse di lavoro. Paradossalmente invece le ricerche del Politecnico di Milano e di Netconsulting rivelano come, anche in questa prima parte dell'anno, siano state le aziende sopra i cento addetti ad aver sperimentato modelli di cloud (perlopiù cloud privato, il meno innovativo). Su quattro milioni di aziende in Italia, il 69% utilizza servizi Saas (software as a service), il 49% Iaas (infrastructure as a service) e solo il 24% il Paas (platform as a service, sistema più evoluto).

Le pmi, complice la crisi economica che da tre anni continua a deprimere la spesa in Ict, per ora si limitano ai servizi di posta elettronici e storage, tralasciando quasi completamente gli altri utilizzi più business oriented. Oltre alla stretta del credito, pesa nelle scelte delle aziende anche la difficoltà di negoziare su base individuale con il Cloud service provider (Csp), ovvero con i fornitori di tecnologia cloud. Si ripete in parte quanto avvenuto negli anni Novanta.

«Prendiamo soltanto come esempio quello del trasferimento dei dati – commenta Aura Bertoni, research fellow in intellectual property law dell'Università Bocconi di Milano –. Nella maggior parte dei casi la scelta dell'ubicazione del server di riferimento è concessa solo a quelle realtà che hanno forte potere contrattuale». I piccoli subiscono le condizioni contrattuali dei Csp, normalmente tarate sulla forte limitazione o addirittura esclusione delle responsabilità del fornitore di nuvola.
Un problema antico nella storia dell'informatizzazione dell'impresa. Reso ancora più intricato dalla mancanza in Italia di norme specifiche che regolino ad esempio i cosiddetti «service terms», la responsabilità contratturale, il rilevamento del danno in caso di disservizio. Come per esempio non esiste qui da noi una norma che obbliga i fornitori di nuvola a indicare sul contratto i «Service level agreement» dalle parti interessate. «Non è facile inquadrare a quale tipo appartenga il contratto di cloud computing – ha spiegato Massimo Maggiore, partner dello Studio Maschietto Maggiore –. In assenza di norme specifiche, la legge del cloud, al momento, è il contratto».

A ciò si aggiunge una asimmetria negli strumenti di verifica. Misurare un disservizio o comunque avere l'accesso per "vedere" cosa succede dentro alla nuvola più che un problema legale è una opzione tecnologica. Richiede personale qualificato e strumenti informatici. La soluzione per le pmi – oltre a quella naturale di rivolgersi a Cloud service provider più disponibili a negoziare condizioni contrattuali eque – è quella di associarsi in reti di imprese per sedersi al tavolo con i big e spuntare condizioni migliori. Anche questo è una pulsione antica della piccola impresa. Che però nel caso del cloud potrebbe rivelarsi un'arma vincente per modernizzare il proprio business, senza inutili rischi.

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