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Questo articolo è stato pubblicato il 19 giugno 2012 alle ore 10:58.

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Ci è voluto un terremoto perché i più si accorgessero che in Emilia è attivo da molti anni un distretto biomedicale leader in Italia e in Europa. Per fortuna, terremoti di questa gravità non capitano così spesso. Ma nel frattempo interi settori cardine della nostra economia rischiano di rimanere sotto le macerie della competizione internazionale, nella generale inconsapevolezza.

È il caso del farmaceutico. Sono probabilmente pochi a sapere che quello farmaceutico è in Italia il primo settore per investimenti di imprese estere (quasi un miliardo di euro nel 2011) e per intensità di ricerca e sviluppo rispetto a fatturato e addetti. Da sola la farmaceutica contribuisce per il 9% al totale della R&S italiana, più della meccanica (6%) e dell'informatica (4%), meno soltanto del comparto dei trasporti.

Inoltre, in un'Italia notoriamente poco specializzata nei settori innovativi, il farmaceutico rappresenta rispetto al totale dell'hi-tech il 31% degli addetti, il 44% degli investimenti in ricerca e produzione e addirittura il 47% dell'export. Questi numeri sono insieme eccezionali e sconosciuti ai più, ma se ne potrebbero citare tanti altri, come farà uno studio attualmente in preparazione di I-Com (Istituto per la competitività), che racconterà le cifre macro e le storie micro del settore farmaceutico nel nostro Paese in un volume che sarà presentato in autunno. Già nel titolo, "Se l'Italia fosse come il settore farmaceutico", potrebbe apparire (volutamente) una provocazione, ma, in realtà, è solo il frutto di una lettura attenta di dati incontrovertibile e di esperienze straordinarie.

Come quella dello stabilimento di Sesto Fiorentino, dove l'americana Eli Lilly nel 2009 ha investito 250 milioni di euro per creare un polo di eccellenza biotecnologico che produce insuline, unico sito in Italia. E che esporta il 95% di quanto viene prodotto. Nel frattempo, l'impianto è stato ulteriormente ampliato, con nuovi investimenti e nuove opportunità per il territorio. Come è accaduto per lo stabilimento di Campoverde di Aprilia, a pochi chilometri da Roma, dove un'altra multinazionale americana, Abbott, ha concentrato la produzione mondiale di farmaci altamente innovativi e impattanti sulla salute, tra cui uno dei principali trattamenti per l'Hiv/Aids, esportato dall'Italia in tutto il mondo. Ma la realtà, a livello di settore, non è purtroppo solo rose e fiori, come documentano i servizi di questo Rapporto. Quali strategie adottare?

Naturalmente, non è ipotizzabile immaginare un aumento della spesa farmaceutica a carico del servizio sanitario nazionale in funzione anti-ciclica. Tuttavia, se non possono essere azzerati gli ulteriori tagli previsti (che vanno ad aggiungersi a un calo superiore al 25% nell'ultimo decennio), questi potrebbero almeno essere contenuti, operando su una rimodulazione complessiva degli attuali tetti alla spesa. Inoltre, si dovrebbe migliorare l'accesso ai farmaci innovativi, portandolo almeno in linea con la media europea, con beneficio dei pazienti e non solo delle imprese. Infine, ridurre i tempi medi di pagamento, che rischiano di strozzare un settore che, per il 70% del mercato domestico, ha come pagatore le amministrazioni pubbliche. Senza questo pacchetto minimo di misure e un quadro di regole più stabile che in passato, si corre il serio rischio che ad occuparsi di farmaceutica nel nostro Paese nei prossimi anni saranno più gli storici che gli economisti.

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