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Questo articolo è stato pubblicato il 19 giugno 2012 alle ore 10:58.

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Neppure il super export che viaggia ormai al 61% dell'intera produzione nazionale, rischia di bastare più. Il barometro dei primi quattro mesi dell'anno segna cattivo tempo in Italia per l'industria farmaceutica dopo un 2011 già in fase stagnante. La produzione è scesa del 6,2%, il mercato interno frena, i prezzi calano ancora. «Il 2012 inizia con una congiuntura molto sfavorevole»: è l'analisi del centro studi di Farmindustria, l'associazione delle industrie farmaceutiche che operano in Italia.

La manifattura farmaceutica conta attualmente su 318 imprese nel Paese: 240 fanno specialità medicinali, 77 le materie prime. Nel biotech lavorano 241 industrie, 128 delle quali Pmi puramente pharma biotech. L'allarme è in piena regola: rischia di trascinare ancora più giù l'occupazione di settore, che, dopo aver perso in cinque anni 10mila posti (il 13,3% del totale del 2006) s'è assestata l'anno scorso a quota 65mila addetti, il 90% laureati e diplomati.

Tutte le previsioni indicano un rallentamento dell'export farmaceutico, il vero jolly che ha consentito di mantenere a volumi sostenuti la produzione incrementando le vendite sui mercati esteri. Ma senza la crescita dell'export, con la produzione che flette, aumentano le preoccupazioni sulla tenuta a medio-breve termine del sistema-farmaco in Italia. Con potenziali pesanti riflessi sulle linee produttive. E dunque sui livelli occupazionali. Settore tipicamente anticiclico, anche il farmaceutico deve piegarsi ai colpi di maglio della crisi e della recessione. Anche perché intanto deve affrontare a livello globale un modo completamente nuovo di essere industria, di produrre, di stare sul mercato, di fare ricerca.

Cambiamenti che stanno sconvolgendo la fotografia ormai d'annata di Big Pharma. Tutto questo mentre i farmaci blockbuster capaci di ribaltare i destini di un'impresa, praticamente non esistono più. Nessuno più li scopre. Non arrivano sul mercato. Mentre scadono i brevetti e i più risparmiosi generici conquistano tutti i mercati, anche se da noi meno che altrove. Cambiamenti epocali a livello mondiale che sull'Italia hanno a loro volta riflessi del tutto peculiari. Sia per gli assetti produttivi nostrani. Sia per le caratteristiche del nostro mercato domestico che vede nel committente pubblico il primo acquirente di prodotti farmaceutici.

Ma anche per la tipicità del sistema politico italiano e, di riflesso, di quello normativo, figlio delle scelte – e delle non scelte – della politica e dei Governi di circostanza. Pochi dati: i tempi biblici per l'accesso ai nuovi farmaci, che arrivano a 500 giorni. O i ritardi di pagamento da parte del servizio sanitario: 251 giorni in media, ma con punte che arrivano a 740 in Calabria. Saranno almeno quindici anni che industrie e sindacati invocano l'ormai mitico rilancio della politica industriale di settore. Tutto inutile, finora. Molti tavoli, altrettante sedie e sgabelli, dotti studi e approfondite analisi. Ma nessun risultato concreto. E così il settore farmaceutico resta in cerca d'autore.

Le industrie chiedono certezza di regole e un impianto normativo stabile. Arrivano invece – lamentano – manovre a ripetizione, che in cinque anni hanno scaricato in vario modo tagli per 11 miliardi sul settore. E ora c'è una nuova potatura da 1 miliardo all'orizzonte, in applicazione della manovra dell'anno scorso ma anche sull'onda della spending review che il Governo ha in preparazione. «Insostenibile, il colpo di grazia finale» è il timore delle imprese, nazionali e multinazionali.

Insomma, il gigante del farmaco mostra (e lamenta) di avere sempre più piedi di argilla. A dispetto delle eccellenze che rivendica. Come il primato tra tutte le imprese hi-tech italiane, tra le quali vanta più produzione, più investimenti e più export. O come la vocazione alla ricerca e all'innovazione testimoniata anche dal ruolo preponderante che il pharma detiene nel comparto biotech nazionale. Bastassero, per reggere l'onda d'urto della crisi. Se non addirittura per crescere.

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