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Questo articolo è stato pubblicato il 18 luglio 2012 alle ore 13:47.

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«Si salva solo chi esporta», recita il manuale di sopravvivenza del capitalista italiano. Così fosse, nel Lazio e soprattutto a Roma ci sarebbe poco da stare allegri. Tolte le multinazionali atterrate sul territorio negli ultimi anni, i giganti delle Partecipazioni Statali che furono e qualche poco più che sporadica realtà locale, a Roma esportano in pochi: il Lazio fa il 9,1% del Pil italiano e il 4,5% del suo export.

Un falso problema, penseranno alcuni. Facile sopravvivere di mercato interno, quando sei la Capitale, con i suoi ministeri, i suoi enti, la sua burocrazia. O l'Urbe Eterna che, con i suoi 23,6 milioni di pernottamenti annui, è come se ospitasse ogni giorno una nuova città di 65mila abitanti provenienti da tutto il mondo. O ancora, il "Capoluogo-Sole" che, sempre più, al pari di Milano, si gonfia come una zampogna dei tanti pendolari che ogni giorno, dalle città-satellite che la circondano, la raggiungono per lavorarci. O la metropoli globale del "modello romano", dei grandi eventi e delle grandi mostre.

Roma – e di conseguenzailLazio– avrebbeinsomma tutte le carte in regola per essere l'eccezione che conferma la regola, area metropolitana che attrae flussi invece che doverseli andare a cercare. Non è così, invece. Al contrario, oggi Roma e il Lazio stanno vivendo sulla loro pelle la fase più dura di una crisi che altri territori avevano già sperimentato negli anni passati. La fiducia dei consumatori è arrivata al punto più basso degli ultimi quindici anni. I tagli alla spesa del Governo - e i ritardi nei pagamenti - hanno messo in ginocchio il mercato dell'indotto pubblico e la spending review minaccia di sdraiarlo definitivamente. Dei grandi eventi e della "Roma da bere" dello scorso decennio si sono perse le tracce. Il turismo, pur tenendo sul versante delle presenze, vede i propri margini erodersi, anche a causa dell'aumento esponenziale dei nuovi intermediari online, che arrivano a trattenere un terzo del valore di ogni transazione. Il mondo delle costruzioni è ibernato dal blocco alle opere pubbliche, dalla crisi della domanda e dalle difficoltà delle banche a erogare credito, il cui combinato disposto si legge nel -47% di mutui erogati nel primo trimestre dell'anno (con percentuali di insolvenza che a Roma arrivano a lambire un terzo dei debiti contratti).

Il collo della clessidra si è tappato e verso il basso, ormai, di granelli d'indotto ne scendono ben pochi. Non è un caso del resto, che il perdurante calo degli ordinativi e della produzione si sia ulteriormente aggravato nei primi mesi dell'anno e minaccia di aumentare ancora, soprattutto laddove la dimensione d'impresa è media o piccola.

Di fronte a Roma e al Lazio, c'è la sfida di una metamorfosi complessa: quella di chi è abituato ad accogliere il mondo in casa e che dovrà, sempre più, abituarsi ad andare nel mondo. Puntando forte, oltre che sul turismo, anche su settori manifatturieri strategici come la farmaceutica (che da sola fa il 25% dell'export regionale) o la chimica (che fa il 12%) o anche a specializzazioni più recenti come l'elettronica e la meccanica, la cui localizzazione è sovente fuori dai confini dell'Urbe, sul territorio. E la cui crescita dell'export, pur in un anno a due facce come il 2011, si è attestata fra il 6 e il 9 per cento. Puntando anche, però, sull'evoluzione delle numerose, piccole realtà produttive del territorio, dalle start-up innovative a quelle che provano a innovare i saperi sedimentati sul territorio. Su capitalisti delle reti come il Porto di Civitavecchia, che proprio in questi giorni ha presentato la sua ambiziosa visione strategica di diventare un hub per la mobilità di merci e persone lungo l'asse Tirreno-Adriatico. E su un ceto professionale estremamente qualificato - a Roma e il Lazio quasi un laureato italiano ogni tre è "sovraistruito" rispetto alla professione che svolge - e oggi a forte rischio di marginalità sociale. Balzano agli occhi i dati dell'Osservatorio sul mercato del lavoro della Provincia di Roma, che nel suo recente rapporto ha messo in luce un tasso di disoccupazione effettiva pari al 18,3%, con soli tre lavoratori ogni dieci in possesso di un contratto a tempo indeterminato.

Partendo da qui, la metamorfosi è dura, ma possibile. Di certo, è necessaria.

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