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Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2012 alle ore 08:31.

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La filiera – dal modellista al costruttore di scatole, dal fabbricante di fibie a quello di stringhe, dal trinciatore al chimico, dal conciatore al cucitore, dal tessile al verniciatore – si è sfibrata come un laccio vecchio. «Il fatto che quel che rimane di questo distretto ancora resiste – dichiara Boccanera con una lucidità che molti degli associati non hanno – è legato al sistema moda italiano, che traina il lusso e l'alta gamma. Per il resto la filiera è completamente sfibrata. Pochi ormai i suolifici e i cordolifici. L'ultima azienda che produceva stringhe ha chiuso 10 anni fa. Per i particolari in metallo, che prima si trovavano in loco, i nostri produttori ora si rivolgono agli artigiani toscani». Le difficoltà del settore calzaturiero hanno trascinato inevitabilmente nell'incertezza anche il comparto meccano-calzaturiero che si era sviluppato floridamente negli anni del boom economico.

Una filiera che aveva permesso la nascita nell'85 del Cimac (il Centro italiano di materiali di applicazione di applicazione calzaturiera) e l'anno successivo l'insediamento dell'Istituto di tecnologie industriali e automazione (Itia) del Cnr (Centro nazionale di ricerche). L'annus horribilis è stato il 2002. I cinesi – che fino a quel momento avevano importato dall'Italia macchine per produrre scarpe – in quell'anno cominciarono a fare in proprio anche quelle, oltre alle scarpe. Addio qualità e sogni di gloria per il distretto vigevanese. «Nel '92 – ricorda Amilcare Baccini, managing director di Assomac, l'associazione nazionale dei costruttori macchine ed accessori per calzature, pelletteria e conceria che proprio a Vigevano ha sede – la Cina produceva 3,1 miliardi di scarpe all'anno di cui due destinati ai mercati mondiali. Lo scorso anno ne ha prodotte 13 miliardi di cui 10,1 miliardi esportate».

Già, il '92. È stato l'altro annus orribilis. «È stato l'anno in cui ci siamo addormentati come leader indiscussi nella produzione di macchine, come geni conclamati del settore calzaturiero – ricorda ancora Baccini –, ma ci siamo risvegliati lo stesso anno con l'inizio di una crisi progressiva e con la consapevolezza che stava iniziando la scalata della Cina come maggiore produttore del settore». Del resto – per rimanere al mondo delle macchine per calzature – è difficile anche sperare nell'innovazione. «Siamo un settore maturo – spiega Baccini – e quindi anche l'innovazione è complessa, perché il mercato è nato per meccanizzare singole operazioni e più di così non è possibile fare». Competere con i numeri asiatici è impossibile, nonostante l'Italia, con 212 milioni di paia esportate nel 2011 sia al terzo posto nel mondo dopo Cina e Vietnam (625 milioni) che poi altro non sarebbe che una "colonia" della stessa Cina. Competere è impossibile anche perché i cinesi stanno riempiendo – anche fisicamente – gli spazi lasciati vuoti nei magazzini da decine di tranciatrici, orlatrici e cucitrici, che producono senza regole per il mercato di bassissima fascia.

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