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Questo articolo è stato pubblicato il 11 settembre 2012 alle ore 07:48.

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«Certo – aggiunge Mussini – tutto quello che abbiamo guadagnato lo abbiamo poi dovuto reinvestire per aggiungere valore al prodotto, altrimenti la concorrenza ci avrebbe schiacciato». Anni fa, ad esempio, le piastrelle uscivano dagli impianti e andavano direttamete al cliente mentre oggi le operazioni di rifinitura, come il taglio laser degli spigoli, sono parte integrante e qualificante del ciclo produttivo.
«L'Università della piastrella è qui – spiega con orgoglio il presidente di Confindustria Ceramica Franco Manfredini – e nonostante l'arrivo dei cinesi non abbiamo affatto perso terreno». Rispetto al mercato mondiale, esploso dopo l'ingresso della Cina nel Wto, il peso del distretto si è necessariamente ridotto, passando dal 60 al 23% del commercio internazionale ma in realtà per ciascuna azienda la quota di export è cresciuta: dal 56% di 20 anni fa all'odierno 79%. «In passato si andava soprattutto in Europa – racconta Manfredini, titolare della Casalgrande Padana – mentre oggi il peso dei Brics è arrivato al 10% ed è ancora in crescita: nei primi sei mesi del 2012 l'export extra-Ue balza del 13%, mentre il Vecchio Continente e l'Italia soffrono». Un valore, quello della piastrella nazionale, rafforzato dall'adozione del marchio comune Ceramics of Italy, che contraddistingue la produzione di ceramica cotta qui, con il chiaro intento di valorizzare il made in Italy e rafforzarne l'immagine sui mercati globali.

Terreno di caccia dei nostri "big", ma anche di gruppi minori come Italgraniti, in grado di conquistare commesse in tutto il mondo, tra cui il maggiore centro commerciale dei Paesi del Golfo, in Kuwait, oppure la pavimentazione del mitico Madison Square Garden a New York. E se mai ci fossero dubbi sulla capacità esportativa delle nostre aziende, per toglierseli basta fare un salto alla fiera di categoria a Bologna, il Cersaie (al via il 25 settembre ndr.) dove i buyer stranieri sopravanzano di gran lunga i compratori nazionali, con flussi di operatori in arrivo da tutto il mondo e l'inglese come lingua più diffusa tra gli stand.
«I trend di settore li fissiamo noi in questo distretto – racconta l'amministratore delegato di Marazzi Maurizio Piglione e questa non a caso è la fiera mondiale di riferimento per tutti».
Marazzi, forte di 832 milioni di ricavi con 6.100 addetti, è il big del territorio, capace di crescere e svilupparsi anche oltre i confini nazionali. Con unità produttive in Russia, Spagna, Francia e Stati Uniti sviluppa all'estero i due terzi della produzione e l'80% delle vendite. «Non si tratta di delocalizzazione – spiega – perché all'estero produciamo per presidiare i mercati locali mentre qui teniamo il top di gamma, la produzione di maggior valore aggiunto che non riusciremmo a fare altrove e che esportiamo poi in tutto il mondo. Il distretto resta forte e vitale, se vogliamo trovare un punto di debolezza è forse proprio nella scarsa spinta produttiva all'estero: credo che solo nove aziende su 200 in Emilia-Romagna abbiano stabilimenti oltreconfine».

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