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Questo articolo è stato pubblicato il 16 settembre 2012 alle ore 15:15.

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Dalla «626» la spinta alle scarpe pugliesiDalla «626» la spinta alle scarpe pugliesi

Da queste parti avevano diversificato aziende del Nord, come la Franzoni Filati, passata, anch'essa, da 170 dipendenti a zero. Altre aziende produttive si sono trasformate in società commerciali, altre ancora hanno delocalizzato in Albania lasciando nei capannoni inutilmente spaziosi una mezza dozzina di dipendenti che si occupano dei prototipi.

Chi non è stato espulso dal mercato, come Antonio Musacco della Pangalfi, è stato atterrato da un incendio della fabbrica propagatosi nel luglio 2010, malgrado fosse riuscito a rimetterla in produzione nel giro di tre giorni: «Le banche sono sadiche. Fino a quattro anni fa i direttori degli istituti di credito facevano la fila per essere ricevuti da me. L'assicurazione mi ha restituito 40mila euro su un danno di 700mila euro. Gli affari vanno alla grande grazie a un designer marchigiano di talento come Beniamino Ambrosini. Abbiamo avuto un aumento dei ricavi del 30 per cento, ma avrei bisogno di allungare il pagamento ai fornitori per ripagarmi il costo dell'incendio. Niente da fare. Alle banche non gliene frega nulla che tu vada bene o male. Ormai non mollano un centesimo».
Il marchio Pangalfi è stato clonato pure in Cina. E a proposito di cinesi l'imprenditore tranese racconta che ormai per le tomaie è pure inutile andare in Albania: «Ad Andria c'è una fabbrica gestita da cinesi che ne sforna mille a notte».

La storia della Pangalfi conferma il teorema formulato dall'economista Gianfranco Viesti nella sua ricerca del 2006 su "L'economia della città di Barletta: presente e possibile futuro". Chi si sposta sul target medio alto può farcela alla grande. Ma ci vogliono designer di talento, grande flessibilità per riassortire velocemente i prodotti che riscuotono il consenso del mercato e risorse sufficienti per finanziare almeno due, tre collezioni all'anno, al costo di almeno 150 mila euro cadauna. Aggiunge Musacco: «Dalla Cina arrivano solo container da 6.400 paia. Spesso sono scarpe ammuffite e con non pochi difetti. Noi accettiamo l'ordine minimo di 48 paia, che consegniamo al commerciante nel giro di una settimana. Capisce la differenza?».
L'alternativa al marchio proprio è legarsi a una griffe. Come ha fatto Giuseppe Conca con Romeo Gigli e Pignatelli. Le varianti per tenere il passo con il mercato sono tante. Ma c'è un handicap che alla fine si ritorce contro tutte le aziende: l'incapacità di fare squadra. Il consorzio Trani Calzature, nato nel 2000 con 37 aziende, è naufragato per le sterili lotte interne su chi meritasse il ruolo di direttore. Alla fine si è scelto il genero di un grande imprenditore, poi fallito, che ha usato il consorzio come trampolino per darsi alla politica.

I consorzi s'incagliano ma gli imprenditori non demordono. La storia dalla Jeannot di Molfetta è esemplare. Nel 1946 Giovanni Porta, detto Giannino, è l'antesignano delle ballerine. Come abbia fatto a inventarsi questa scarpa nel bel mezzo degli anni Cinquanta? Creatività, intuito. Ma prima di tutto il nome. Che nasce dal rifiuto di un commerciante barese di comprare le sue scarpe prodotte a Molfetta. Come se valessero meno perché pugliesi. Giannino s'impunta e sostituisce il suo nome dalla ragione sociale traducendolo in francese: Jeannot. La Francia porta bene. Dopo le ballerine, i sandali. Il 1989, bicentenario della rivoluzione, l'azienda di Molfetta ha esportato l'80% della produzione. Nel 2007 le proporzioni si sono invertite: 70% Italia e 30 per cento estero, soprattutto Francia e Russia. Il nuovo designer francese ha creato, dice con orgoglio l'amministratore delegato Giancarlo Porta, «una collazione a prova di bomba».

Al di là delle scarpe da donna, il distretto Bat o Baat (Bari, Albania, Andria e Trani) vanta una decina di aziende molto competitive nel mercato delle scarpe da lavoro. Che sembra un settore marginale e invece riserva non poche sorprese se solo ci si inoltra nelle sue regole, debuttate in Italia con l'introduzione della legge 626 del '96. Può una norma intelligente salvare molte vite e alimentare un nuovo comparto produttivo? La risposta è affermativa, ma il percorso, oltre che lungo e travagliato, è legato alla metamorfosi del distretto. Vent'anni fa c'erano 120 aziende che producevano scarpe sportive iniettate di Pvc a basso prezzo – al ritmo di 600mila al giorno – esportate soprattutto in Francia e Germania. Con la caduta del muro di Berlino, quelle produzioni si spostano gradualmente nel Far East. A prenderne parzialmente il posto saranno le aziende di safety shoes che nascono proprio in quegli anni. La Cofra è la leader indiscussa, alla quale si affiancano altre imprese come quella di Antonio Diterlizzi, ingegnere meccanico ed ex ricercatore del Cnr che intuisce le potenzialità del prodotto automatizzando una fabbrica che produce iniettato a basso prezzo. Di qui alla creazione di una divisione safety shoes il passo è breve. Ora Diterlizzi guida il settore calzaturiero degli industriali della provincia Bat ed è a capo della Base protection, un'azienda barlettana tra i leader del settore delle scarpe da lavoro.

Che per essere tali (i canali di distribuzione sono unicamente i negozi di ferramenta) devono avere tre caratteristiche fondamentali: puntali d'acciaio, inserto antiperforazione e battistrada antiscivolamento. Ovviamente, ci sono una moltitudine di varianti: dai vigili del fuoco agli operai dell'Enel, sono stati studiati degli accorgimenti ad hoc calibrati sui rischi legati a ogni mestiere. I big di mercato di questa scarpa tecnologica sono Italia, Francia, Germania e Spagna. Il gruppo francese Jal, che ha un'unità di ricerca a Trani, è entrato in crisi quando ha deciso di delocalizzare il 90% della produzione in Tunisia. Un errore che i barlettani non hanno commesso: la sinergia con l'Albania è stata costruita passo dopo passo da tecnici e imprenditori pugliesi.

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