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Questo articolo è stato pubblicato il 25 settembre 2012 alle ore 19:29.
Si ripagherebbero con gli interessi gli investimenti per trasformare le aree urbane in smart city, secondo la definizione europea («città che investendo in infrastrutture e capitale umano e sociale sostengono lo sviluppo sostenibile, un'elevata qualità della vita e un impiego saggio delle risorse»). Già al workshop di Cernobbio, uno studio di The European House-Ambrosetti per Abb aveva ipotizzato un incremento di 10 punti di prodotto interno lordo all'anno fino al 2030, in presenza di investimenti pari a 3 punti di Pil (vale a dire 50 miliardi), necessari per trasformare l'Italia in un Paese «smart». Ora, una ricerca dell'Istituto per la competitività (I-Com), in collaborazione con Ibm, certifica che ai benefici diretti di questi investimenti in infrastrutture e piattaforme digitali si aggiungerebbero benefici indiretti tangibili per famiglie e imprese.
Secondo lo studio «Verso la smart city», in anteprima per Il Sole 24 Ore, applicando le tecnologie «smart» disponibili si conseguirebbero risparmi nella bolletta elettrica pari al 3,42% per l'utenza domestica, all'1,54% per quella industriale e all'1,34% per quella del terziario. Questo avverrà se sotto le smart city ci saranno le smart grid (ovvero le reti elettriche cosparse di sensori, controller a logica programmabile e attuatori e rese intelligenti e bidirezionali da strati evoluti di middleware e software). Reti che, già oggi, sarebbero in grado di inserire una maggiore produzione di energia da fonti rinnovabili, prevenire perdite di energia e ridurre i costi di manutenzione.
«Il taglio della bolletta ipotizzato deriva da un'analisi effettuata simulando l'applicazione di tecnologie smart in due città medie italiane, Modena e Rimini - spiega il presidente di I-Com, Stefano da Empoli -. Si aprono ottime possibilità per migliorare l'efficienza energetica degli edifici domestici, industriali, del terziario e della pubblica amministrazione. E opportunità importanti di business per l'industria».
Sì, ma chi pagherebbe la trasformazione delle nostre antiche ma spesso obsolete città in smart city? Le amministrazioni pubbliche alle prese con i forti tagli dei trasferimenti statali? Lo Stato centrale con stringenti obiettivi di pareggio di bilancio? Le imprese che sperimentano una crisi economica ormai prolungata? I-Com lancia una proposta pragmatica. «Oggi i benefici delle tecnologie smart possono essere significativi, soprattutto per soggetti con elevati consumi di energia - spiega da Empoli -. Tuttavia potrebbero rappresentare ancora di più una chiave di risparmio per le famiglie e di competitività per le imprese, nel caso di applicazioni multi-settoriali e di aggregazioni di consumo. In questo caso, l'unione fa davvero la forza perché rende convenienti degli investimenti che su singole unità di consumo rischiano di non essere sufficienti o avrebbero ritorni troppo differiti nel tempo. Le associazioni tra imprese, ma anche tra Comuni e tra condomini potrebbero risultare decisive».
Una maxi-alleanza per l'Italia digitale, quindi, che non si baserebbe solo su fondi pubblici o su quelli europei (che comunque sono cospicui, visto che ammonta a 10 miliardi in quattro anni il budget Ue per i bandi smart city previsti). Ma anche se i privati si attivassero, sarebbe comunque fondamentale che il tema avesse priorità nelle politiche di governo. Ben vengano la nuova Strategia energetica nazionale in elaborazione, l'Agenda digitale e i nuovi incentivi alla green economy allo studio. Ma serve un impegno maggiore e regole certe. Il Rapporto Ambrosetti per Abb lo chiede a voce alta, evidenziando che se nelle 10 maggiori città italiane si investissero 6,7 miliardi all'anno i ritorni sarebbero nell'ordine dei 9,4 miliardi annui. Il punto focale della questione, secondo l'amministratore delegato di Abb Italia, Barbara Frei, è riconoscere questa svolta come un'evoluzione necessaria. «Quanto potrebbe costare al sistema Italia - è la provocazione lanciata da Frei - il fatto di non scegliere, di non investire, di non progettare, di non governare un cambiamento, che nonostante tutto e tutti, si avvicina?». Una domanda alla quale un Paese che vuole seminare sviluppo, al di là dei tagli, dovrebbe dare una risposta.
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