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Questo articolo è stato pubblicato il 25 settembre 2012 alle ore 19:30.

L'hi-tech riscopre le città. I big della tecnologia, che una volta puntavano su aree dedicate e asettiche come ecosistemi ideali per le aziende, ora preferiscono i grandi centri urbani. Da New a Londra, da Seattle a Los Angeles, è un fiorire di distretti tecnologici urbani che fanno da volano all'innovazione. Un po' perché le trasformazioni tecnologiche – il cloud prima di tutto – permettono di non preoccuparsi dei luoghi. E un po' perché i giovani techies di oggi amano muoversi in bicicletta e avere a portata di mano opportunità di socializzazione al di fuori del lavoro.
A sottolinearlo è stato recentemente Richard Florida, il teorico della "classe creativa", sottolineando come sia proprio la necessità di sentirsi in una rete di relazioni, fisica ancor più che virtuale, l'elemento alla base di questa tendenza: «Le città sono centrali per l'innovazione e le nuove tecnologie – afferma –: agiscono come enormi piattaforme di coltura dove creativi e imprese fanno a gara, unendo gli sforzi, per dare vita a nuove idee, nuove invenzioni, nuovi business e nuove tecnologie».
Non c'è dubbio che il secolo appena iniziato sarà quello delle grandi metropoli: ormai più di metà della popolazione mondiale è urbanizzata ed entro la metà del secolo lo saranno i due terzi, concentrati in aree pari al 2% della superficie terrestre. Le 600 città più grandi producono più della metà del Pil globale. Allo stesso tempo le città rappresentano due terzi dei consumi di energia e l'80% delle emissioni di gas serra. La crescita dei conglomerati urbani porta con sé quindi rischi di squilibri e di disuguaglianze, ma anche grandi potenzialità di sviluppo e opportunità per le aziende.
Lo sanno bene a Philadelphia, dove hanno nominato un Cio, un chief innovation officer, per contribuire a fare in modo che la città «diventi un abilitatore e una piattaforma per l'innovazione». Secondo Eric Woods, analista di Pike Research, nei prossimi anni oltre 100 miliardi di dollari saranno investiti nel mondo in tecnologie innovative per città e per il 2020 16 miliardi di dollari saranno spesi annualmente in questo campo. In più saranno necessari massicci investimenti in infrastrutture urbane, che qualcuno stima in 2mila miliardi di euro all'anno, per rendere quelle città più friendly per chi le usa. È un discorso che vale anche per l'Italia, tanto che la "smart city" è entrata prepotentemente nell'Agenda digitale. Uno studio di The European House-Ambrosetti per Abb fa qualche stima: ipotizzando un investimento annuo attorno al 3% del Pil da qui al 2030, il ritorno in termini di efficienza arriverebbe attorno all'8-10% annuo (si veda articolo a pag. 45, ndr).
Tutto questo si inserisce nel concetto "smart city", oggi molto in voga, che sottende la necessità di rendere più sostenibile e vivibile la città, mettendo l'accento sull'efficienza e sulle gestione ottimale delle risorse, con l'obiettivo di migliorarne la qualità della vita. In questo la tecnologia gioca un ruolo decisivo. Ma non sufficiente, se non si riesce a passare a una gestione attiva delle infrastrutture. Se vengono attuati modelli di governance inclusivi e di gestione efficiente, l'attrattività economica, la protezione ambientale e la qualità della vita per tutti i cittadini possono anche diventare obiettivi non in contrasto tra loro.
Steven Berlin Johnson illustra questo futuro possibile nel suo ultimo libro «Future Perfect»: «Chi ha creato internet? Non sono stati i governi, ne' il capitale, ma sono stati i peer network, le reti collaborative, a plasmare il web come infrastruttura del mondo moderno – spiegava la settimana scorsa in un intervento a Milano –: dobbiamo concentrarci sulle prospettiva di queste reti nel guidare l'innovazione in senso bottom-up e nel fare del mondo un posto migliore». Anche nelle città.
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