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Questo articolo è stato pubblicato il 27 settembre 2012 alle ore 06:45.

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MILANO
La temperatura verrà ridotta gradualmente, per evitare che il materiale refrattario dei forni, in parole povere la «muratura», venga incrinato o frani a causa di uno sbalzo termico. Contemporaneamente, anche la velocità di caricamento degli agglomerati di minerale, coke e calcare sarà ridotta.
Non ci vorrà molto tempo. Basteranno una ventina di giorni per spegnere le «bocche» dell'Ilva. «Si tratta comunque un processo molto delicato – spiega Carlo Mapelli, docente di metallurgia al Politecnico di Milano –. Se svuotato, l'altoforno non ha più al suo interno una massa di sostegno, non ha più appoggi, e il rischio di pericolose incrinature, se non di crolli, è concreto. Serviranno circa tre settimane per fare le cose per bene».
Se ne occuperanno le stesse squadre di operai che da anni si alternano sui turni nell'impianto tarantino. «Probabilmente – spiega il docente del Politecnico – il capoingegnere, vale a dire colui che conosce l'altoforno meglio di qualunque altro, sarà costretto a stare a stretto contatto con l'impianto per intere giornate. Al di là dei sofisticati sistemi di controllo, in queste situazioni conta molto la sensibilità tecnica di chi conosce l'impianto da anni».
Altoforni come quelli di Taranto, da 35 metri di altezza e un diametro dai 10 ai 14 metri, spillano dalle 10 alle 13mila tonnellate di ghisa al giorno.
Negli ultimi giorni di spegnimento la produzione scenderà fino a 2mila tonnellate, un calo al quale si accompagnerà anche un progressivo depauperamento della qualità della colata.
I problemi maggiori, però, si incontreranno nell'eventuale processo di riaccensione degli impianti. «L'auspicio – spiega Mapelli – è che non si verifichino incrinature nella struttura, a causa di shock termici. Se i danni sono limitati e circoscritti, però, è possibile intervenire localmente».
Un ulteriore problema nella riaccensione è rappresentato da quella che gli addetti ai lavori chiamano la «salamandra», vale a dire l'ultima lingua di ghisa solidificata che si forma alla base dell'altoforno, una volta spento. Per rimuoverla serve la dinamite, o i caterpillar – un gigante come Mittal, che recentemente ha spento altoforni, ha cercato soluzioni alternative ma senza fortuna – e il rischio di provocare danni in queste situazioni è molto elevato. A quel punto, ricostruire l'intera muratura (un'operazione che potrebbe richiedere almeno tre mesi di tempo) potrebbe costare anche più di un centinaio di milioni di euro.
Ma anche una riaccensione in condizioni ottimali rischia di non essere del tutto indolore. Per tornare gradualmente a regime – come per lo spegnimento anche nell'accensione è richiesta grande cautela, per evitare shock termici – un altoforno ha bisogno dai quattro ai sei mesi di attività, con dei costi di manutenzione stimati tra i 10 e i 20 milioni di euro.
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LE CRITICITÀ

Attività ridotta. Negli ultimi giorni prima dello spegnimento, la produzione di un altoforno scende da 10-13mila tonnellate fino a circa 2mila. Anche la colata può avere variazioni chimiche non ottimali
La «salamandra». In caso di riaccensione, rimuovere l'ultimo getto di ghisa solidificato alla base dell'altoforno (in gergo la «salamandra») è complicato: può richiedere l'uso di dinamite o di caterpillar e rischia di provocare gravi danni alla muratura dello stesso impianto, con conseguenti ingenti costi di manutenzione successivi

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