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Questo articolo è stato pubblicato il 11 ottobre 2012 alle ore 08:58.
Se ci atteniamo alle statistiche su competitività e lavoro la Campania e la "città infinita" napoletana riassumono tutte le contraddizioni del Mezzogiorno, imprigionate come sembrano in una spirale perversa, con effetti domino che coinvolgono efficienza economica, coesione sociale, tenuta delle istituzioni.
Nonostante le tante storie d'impresa, di buona amministrazione, di produzione culturale che testimoniano la vivacità e la capacità di reazione della società campana. Qui i redditi medi ufficiali restano più contenuti e le diseguaglianze più marcate, il numero dei disoccupati (18,5% nel secondo trimestre 2012, la disoccupazione giovanile su valori "spagnoli", con un giovanissimo su due senza lavoro) con pochi eguali nello stesso Mezzogiorno, il Pil pro capite più basso d'Italia, metà di quello lombardo.
Qui, come oggi avviene altrove nella penisola, segnano da tempo il passo le "due vie allo sviluppo industriale", il fordismo e i distretti, e nella crisi riacquistano materia gli spettri della marginalità. Napoli ha vissuto vent'anni fa la dismissione siderurgica, tema caldo nella Taranto dell'Ilva, e la de-industrializzazione. Nella crisi del bene icona del fordismo, l'automobile, la Fiat ha voluto lanciare da Pomigliano, dove per ora si lavora a singhiozzo, la sua ristrutturazione delle basi del produrre in Italia. Più a monte, in Irpinia, ha chiuso Irisbus, mentre a Pratola Serra si ristruttura sperando nella produzione di motori per i marchi Alfa e Chrysler. Per inciso, è a quest'asse, che connette Napoli a Taranto passando per Termoli, l'Irpinia e Melfi, che occorre guardare per capire cosa resterà in Italia della produzione fordista.
Aeronautica e auto sul versante industriale, logistica e portualità (che per traffico merci, in attesa dei progetti di rilancio, rimane distanziata dai maggiori hub portuali italiani) costituiscono certamente perni su cui ricostituire tessuto economico e funzioni terziarie vitali per la metropoli. È problematico tuttavia immaginare un futuro, per la Campania e per la stessa Napoli, che non ponga al centro il rapporto tra il capoluogo e i tanti territori che la circondano, sulla costa e nell'outback appenninico.
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