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Questo articolo è stato pubblicato il 25 ottobre 2012 alle ore 09:08.

Piemonte simbolo dell'alimentare made in Italy. Non è un'esagerazione. Nel 2011 il giro d'affari del food piemontese nel 2011 è stato di 11,6 miliardi (il 9,1% del fatturato del made in Italy alimentare) e l'export ha superato i 4 miliardi. Qui si coniugano tradizione e innovazione, grandi imprese multinazionali e piccoli artigiani. Piemonte "laboratorio", nel quale si contano sempre più casi di piccole aziende che crescono di dimensione cercando di conservare la matrice artigianale della produzione.

In Piemonte, secondo l'ufficio studi di Federalimentare, sono attive più di 4mila imprese alimentari che incidono per il 7,3% sul totale delle aziende italiane del comparto e occupano oltre 38mila addetti. Il che significa che le imprese alimentari piemontesi vantano una maggiore intensità di manodopera e presentano dimensioni maggiori rispetto al resto del paese. Segnali della forte integrazione fra grandi aziende e Pmi emergono dai segmenti cardine del settore. A cominciare dal vino che, da solo, vale un terzo circa dell'intero export del food regionale e nel quale marchi di dimensioni medio grandi (da Gancia alla Giordano vini, dai Fratelli Martini di Cossano Belbo alla multinazionale con solide radici locali Martini & Rossi) convivono con una molteplicità di aziende piccole che, però, trainate dal fenomeno Barolo, stanno macinando risultati sui mercati internazionali.

E non è un caso se proprio in Piemonte si registra uno dei rari esempi di accordo interprofessionale nel settore del vino col tavolo per la definizione del prezzo delle uve Moscato che da anni riunisce rappresentanti dell'industria e viticoltori. «Siamo rimasti una azienda familiare anche allargando e diversificando la nostra produzione – spiega Roberta Ceretto dell'omonima cantina che dai 160 ettari di vigneto produce un milione di bottiglie e vanta un giro d'affari di 10 milioni realizzato per oltre il 50% all'estero (fatturato che sale a 15 milioni considerando anche la produzione di nocciole delle Langhe e i due ristoranti di proprietà) –. A partire dagli anni 80, con la nascita dell'Arneis Blangé, il bianco che ha affiancato i grandi vini rossi, abbiamo superato il milione di bottiglie prodotte dando un grosso impulso allo sviluppo del marchio. Ma il nostro cruccio oggi resta il fatto che grandi vini come il Barolo, se sono sempre più apprezzati all'estero, chissà perché, lo sono meno in Italia». Chi ad esempio ha reinventato su scala industriale una produzione artigianale è la Grom gelati che in pochi anni (nata nel 2003) ha aperto 60 negozi monomarca (10 dei quali all'estero) e raggiunto i 30 milioni di fatturato. Fra le chiavi del successo la differenziazione spinta dei gusti che cambiano vorticosamente con le stagioni insieme alla reinterpretazione di antiche ricette (caramello e mandorle) o la riscoperta di sapori perduti (dalla "crema come una volta" a base di uova biologiche fino al sorbetto ai cachi). Senza dimenticare l'innovazione: a breve verrà lanciata sul mercato una linea di biscotti senza glutine nati per la gelateria.

«Trasformare un'azienda artigianale in una grande azienda è possibile – dice Federico Grom, ex analista finanziario e fondatore del marchio insieme all'enologo Guido Martinetti – e in Italia ci sono molte conferme in questo senso. L'importante è resistere all'avidità. Quell'avidità che può portare a stringere compromessi sulla qualità delle materie prime pur di ottenere margini di breve termine. Invece bisogna sulla qualità e sull'eccellenza, convinti che nel tempo il ritorno in termini di immagine e di rivalutazione del marchio saranno superiori a qualsiasi guadagno di breve». Altro esempio di azienda familiare che, sull'onda della tradizione, è diventata industria è quello del Caseificio pugliese.

A dispetto del nome si tratta di un'azienda tutta piemontese (che vanta oggi un fatturato di 50 milioni e che nello stabilimento di Torino impiega 200 addetti) nata dall'esperimento della famiglia Radicci che, giunta da Gioia del Colle a Torino negli anni '50, decise di avviare in Piemonte la produzione casearia del Sud. «La nostra convinzione – spiega l'ad, Carlo Radicci – è che per fare le migliori mozzarelle e formaggi a pasta filata occorre partire dal latte piemontese. Nel tempo poi abbiamo diversificato la nostra attività estendendoci prima a formaggi, robiole e stracchini locali, e poi ai prodotti a base di latte di capra. Oggi trasformiamo 2mila quintali di latte al giorno e vendiamo mozzarelle e ricotte anche in Puglia». Un aspetto che descrive, forse meglio delle cifre, il successo della famiglia Radicci. «Il nostro segreto? Mantenere la matrice artigianale – conclude l'ad del gruppo –: nel nostro stabilimento da 15mila mq la produzione compete con quella delle multinazionali, poniamo la massima attenzione a qualità e logistica, ma i nostri "nodini" e le ricotte sono ancora fatte a mano, e la figura più importante di tutte resta quella del casaro».

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