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Questo articolo è stato pubblicato il 05 novembre 2012 alle ore 23:06.

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Ma l'economia verde può essere oggetto di fede, quasi che fosse una religione? Questa domanda, per assurda che sembri, è più lecita che mai, oggi che negli Stati Uniti – il Paese che porta le maggiori responsabilità ambientali – c'è chi contesta al presidente Obama il sostanziale fallimento degli incentivi alle energie rinnovabili deliberati all'inizio della sua presidenza.

A cominciare dai casi di Solyndra (fotovoltaico) e A123 Systems (batterie ricaricabili), due aziende finanziate coi fondi federali che hanno già portato i libri in tribunale. Certo, l'attacco a Obama è in chiave elettorale, ma questo non toglie che i pannelli solari cinesi siano in grado di stracciare la competizione americana in termini di prezzo. E che il recente boom dello shale gas (il metano ricavato dalla frattura delle rocce nel sottosuolo) sembra aver messo in crisi lo sviluppo del solare e dell'eolico per molti anni a venire: negli Usa il gas – la cui combustione produce anidride carbonica, ma assai meno del carbone – costa troppo poco. Le rinnovabili non possono competere.

In questo scenario, la "green economy", una nuova economia più sostenibile ma ugualmente capace di sostenere la crescita e l'occupazione, appare agli occhi degli americani come una terra promessa. Ma da questo lato dell'Atlantico – dove l'approccio è assai meno manicheo, meno ideologico – le cose non vanno troppo meglio: la crisi economica ha fatto precipitare i prezzi del carbonio sul mercato Ets, fortissimamente voluto dall'Unione europea. Il risultato è che quello che doveva essere un incentivo a migliorare la sostenibilità degli impianti industriali, non incentiva granché.

E la Commissione si trova in qualche difficoltà nel portare, in sostanziale solitudine, la bandiera della lotta al cambiamento climatico. In ultima analisi, solo la Cina, che la strada delle rinnovabili la percorre per davvero (non foss'altro per l'univocità politica che deriva dal partito unico), sembra ancora scommettere sulle prospettive occupazionali e competitive della green economy. È in questo scenario globale che domani si aprono a Rimini gli Stati generali della green economy, «la piattaforma programmatica per sviluppare in Italia un'economia sostenibile». Il fatto saliente è l'approccio impresso all'iniziativa dal ministro all'Ambiente, Corrado Clini.

Al posto di una soluzione dirigistica, gli Stati generali adotteranno la consultazione: imprese e sindacati, partiti politici e associazioni ambientaliste. «Un'originale costruzione dal basso di una strategia di sviluppo per il futuro dell'Italia – ha spiegato lo stesso Clini – che nello stesso tempo contribuisca in modo concreto alla preparazione della strategia e delle politiche europee per la green economy». Alla base del lavoro preparatorio, c'è un lungo «Rapporto sulla green economy» curato da Edo Ronchi e da Roberto Morabito, che segue il filo degli otto settori strategici sui quali si centrerà il dibattito a Rimini (e che fanno da filo conduttore a questo rapporto Sviluppo sostenibile).

In qualche modo, gli Stati generali sembrano voler dare una secca risposta a quella spinosa domanda: no, non c'è bisogno di scomodare la religione, per decidere che la strada sostenibile è quella giusta da percorrere. I nove miliardi di bocche che saranno sedute a tavola da qui a metà secolo, così come il crescente fabbisogno di energia che è in rotta di collisione con le conseguenze ambientali (e la naturale finitezza) delle riserve fossili, non lasciano troppe alternative di lungo periodo. Nel breve, però, qualcuno può sempre sostenere che la crescita economica di cui l'Italia ha bisogno non sia compatibile con i necessari investimenti per mettere in piedi un'intrasfruttrura rinnovabile: ovvero, dotarsi di nuove fonti energetiche, ma anche di uno smart grid (una rete elettrica resa intelligente dai chip) capace di sostenerle.

Molto spesso, pensare al futuro significa imparare dal passato, senza farsi distrarre troppo dal presente. Il cammino del genere umano, e dell'Italia nel suo piccolo, non possono prescindere da un'economia più sostenibile di quella attuale: ovvero capace di «soddisfare i bisogni attuali – recita la definizione dell'Onu – senza compromettere quelli delle generazioni future». E senza dimenticare che, nell'economia globalizzata, occupare posizioni di leadership (come i cinesi hanno già fatto nel solare) significa coglierne i frutti più avanti. Su questo, non ci sono santi che tengano.

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