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Questo articolo è stato pubblicato il 08 novembre 2012 alle ore 08:20.

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Rispetto a vent'anni fa sono raddoppiati i fatturati della packaging valley ma non è cambiata la centralità della filiera di fornitura, vero asset strategico di questa nicchia manifatturiera, dove i terzisti specializzati – oltre 300 artigiani solo nel Bolognese – riescono a coprire tutte le fasi di lavorazione dei committenti. Così come non è una novità la vocazione internazionale, le cui radici affondano ai primi anni Ottanta. «È sicuramente cambiata, però, la geografia dei mercati, con un'Europa che pesa sempre meno, anche se arrivano segnali di ripresa, e Paesi come Bangladesh, Argentina, Kazakistan che si stanno facendo largo tra la Cina, cliente numero uno del distretto, e Usa», precisa Marchesini, alla guida del gruppo familiare con headquarter a Pianoro. Un borgo dell'Appennino bolognese da cui dipendono 800 dipendenti in Italia (dove è concentrata la produzione), altri 200 oltreconfine, un giro d'affari da 188,5 milioni e oltre 9mila linee installate nel mondo, di cui l'85% nel farmaceutico (con clienti come Novartis, Sanofi Aventis a Pfizer).

Al di là delle apparenze mastodontiche, i macchinari per l'imballaggio made in Bologna sono "creature" sartoriali, tagliate a misura del cliente, che sia il rossetto L'Oréal, il blister Pfizer o la scatola Nestlé. «La flessibilità è il nostro valore aggiunto ed è il risultato – prosegue il numero uno degli industriali emiliani – dell'efficientissima rete di servizio del distretto, dai software di progettazione all'assemblaggio finale. Qui basta una buona idea per iniziare l'attività, c'è tutto a disposizione, le barriere all'ingresso sono ridotte. Anche se oggi scontiamo il fatto di non poter più giocare sulla benefica svalutazione della lira per scaricare i maggiori costi per unità di prodotto, rispetto ai competitors tedeschi». E non è solo una questione di sistema-Paese a causare il gap: le macchine emiliane, che per qualità non hanno nulla da invidiare a quelle germaniche (e le superano per design e flessibilità) da sempre devono proporsi sul mercato a un euro in meno per il preconcetto che la meccanica tedesca sia più perfetta della nostra.

«Il nostro vero handicap, però, resta il contesto penalizzante, e non parlo solo di fisco o burocrazia ma degli investimenti infrastrutturali rimasti fermi negli ultimi vent'anni mentre il distretto cresceva», afferma Alberto Vacchi, numero uno di Ima (Industria macchine automatiche), prima industria del settore a quotarsi in Borsa, era il 1995, per finanziare l'espansione e managerializzare l'azienda, anche se il 66,2% delle quote resta tutt'oggi in mano alla famiglia. Con oltre mezzo secolo di storia alle spalle puntellato di acquisizioni e brevetti, 3.400 dipendenti (1.500 all'estero) tra la sede di Ozzano, i 22 stabilimenti produttivi e le 16 filiali commerciali dal Brasile alla Cina, Ima si prepara a superare quest'anno i 700 milioni di fatturato (il 91% è export), avendo chiuso i primi sei mesi (il 14 novembre sarà diffusa la terza trimestrale) con un exploit del +20,7% , «e con buone prospettive anche per il 2013», dichiara Vacchi.

Nella packaging valley non ci sono disoccupati, «anzi, la manodopera specializzata è un tesoro da tenersi stretto, anche perché la formazione tecnica ha perso appeal negli ultimi anni e rischiamo di trovarci senza profili tecnici adeguati se non investiamo su un miglior collegamento tra aziende, istituti tecnici e percorsi universitari: Bologna sforna 100 ingegneri gestionali l'anno ma appena dieci ingegneri dell'automazione», prosegue il presidente e ad di Ima, che controlla il 70% del mercato globale delle macchine per il confezionamento del tè, da Twinings a Lipton.
La crisi non tocca le macchine automatiche ma c'è, ed è pesante, nella metalmeccanica, dove sono molte le vittime rimaste a terra tra le 4.800 piccole imprese della via Emilia, che tra tornitura fresature, saldatura interagiscono con la filiera del packaging, pur non essendo specializzate. «Il settore meccanico è sotto del 25% rispetto alle performance pre-crisi – nota Claudio Pazzaglia, referente di Cna produzione Bologna – a differenza del brillante polo del packaging, salvato dalle percentuali bulgare di export e dalla resilienza di alimentare, farmaceutica e cosmetica per cui lavora». Sono 307 gli artigiani specializzati nella filiera del confezionamento, almeno altri 5mila gli addetti che vanno sommati a quelli dell'industria. Una galassia che non soffre perché il lavoro abbonda ma la cui fragile struttura (l'85% ha meno di 20 addetti) rischia di frantumarsi alle prime difficoltà o al primo passaggio generazionale.

È per questo che i big player sono molto attenti nel salvaguardare il lavoro lungo la filiera, al punto che il colosso cooperativo del cluster, la Sacmi di Imola (quasi un miliardo e mezzo di fatturato tra packaging, che pesa un 20%, e macchine per ceramica), ha appena lanciato sperimentalmente assieme a Cna il progetto "Qualificazione fornitura". Obiettivo: migliorare l'efficienza e ridurre i costi dei fornitori, attraverso l'analisi dei processi interni, per creare un club della fornitura in cui diffondere competitività e cultura del miglioramento continuo. E sempre Sacmi – leader mondiale, con il 90% del mercato, nelle macchine per la produzione di tappi in metallo e plastica e un export vicino al 100% dei ricavi – ha dato vita con Ima alla prima alleanza tra mondo capitalistico e cooperativo, la newco Cmh, Carle&Montanari holding, specializzata in macchine per il cioccolato e prossima a chiudere il suo primo anno di attività poco sotto i 100 milioni di fatturato. «Un'alleanza che vogliamo allargare ad altri settori», prevede il dg Pietro Cassani, che nel roseo panorama della packaging valley avverte qualche timore per le nubi politiche, ma con forte impatto economico, addensatesi su Africa e Medio Oriente.

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