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Questo articolo è stato pubblicato il 27 febbraio 2013 alle ore 11:32.

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È il malato più grave, quello che in questi ultimi anni di crisi economica ha accumulato ferite ben visibili (nei posti di lavoro perduti) e assai difficili da curare. Ma l'industria manifatturiera toscana è anche il malato che mostra sorprendenti reazioni e silenziose trasformazioni. La più evidente è la capacità di penetrazione all'estero. «C'è un pezzo del sistema produttivo toscano, quello proiettato sui mercati internazionali, che sta mostrando un buon dinamismo», spiega Stefano Casini Benvenuti, direttore dell'Irpet, l'istituto regionale di programmazione economica. A marciare sono le aziende che hanno creato un'ampia rete distributiva all'estero e, più spesso, che si sono posizionate in alte fasce di mercato.

Il dinamismo dell'imprenditoria toscana oltreconfine trova conferma nell'incidenza dell'export sul Pil regionale, che nel 2012 ha raggiunto il livello-record del 32 per cento. Era il 25% appena tre anni prima, nel 2009, mentre la performance migliore degli ultimi vent'anni risale al 2000, quando l'export raggiunse il 29,5 per cento. Anche se il 32% di oggi è spinto dalla contrazione del Pil regionale (-2,1% la stima Irpet 2012), non c'è dubbio che indichi la strada-maestra da seguire per non affondare. Anche perché la sofferenza del manifatturiero resta forte. «Il pezzo del sistema produttivo toscano che in questa fase continua a marciare – precisa Casini – è un pezzo piccolo, più piccolo rispetto ad altre regioni come Lombardia, Veneto, Emilia. Anche se, sul fronte industriale, la Toscana non ha un andamento peggiore rispetto a queste».

I numeri sono allarmanti. Dall'inizio della crisi, nel 2008, l'industria manifatturiera toscana ha perso il 25% della produzione. Il 2012 è stato l'ennesimo anno difficile, con una perdita vicina al 5% a causa della domanda interna debole e delle politiche di austerità europee. Tutti i settori, eccetto la farmaceutica, registrano il segno meno nel terzo trimestre 2012, con cali di produzione più contenuti per elettronica (-0,8%), concia e pelletteria (-2,8), industria alimentare (-3,1) e meccanica (-4,5), e più forti per mobili (-7,3), ceramica e cemento (-10), abbigliamento (-8,6) e tessile (-12). Ormai da tempo Irpet evoca la "crescita squilibrata" teorizzata da Albert Hirschman, non più trainata da interi settori o distretti, ma spinta da nicchie e comparti-chiave, in grado di catturare la domanda estera e diffondere le performance al territorio. Quali? Alcuni tasselli del settore moda, a partire dalla pelletteria di lusso concentrata intorno a Firenze, che marcia grazie alle commesse delle griffe di tutto il mondo, ma anche alcune aziende di calzature e abbigliamento altamente specializzate. Altri esempi arrivano dalle grandi industrie, prime fra tutte il Nuovo Pignone (ora ribattezzato General Electric Oil & Gas, la divisione di cui è capofila), basato a Firenze, Massa e Carrara, o da alcune medie industrie dei settori meccanico (nella nicchia delle macchine per la carta o dell'aerospazio) o farmaceutico.

«Sono pezzetti di un mondo nuovo e sconosciuto - spiega Casini - che richiedono un'osservazione e un approccio diversi: perché non si tratta più di cogliere un sistema, ma elementi sparsi più difficili da mappare». L'Irpet ci sta provando, e ha già individuato un centinaio di imprese-gazzelle con una media di 30 addetti: «Queste aziende spesso nascono negli stessi luoghi dell'antica industrializzazione, anche se con essa non hanno nulla a che fare, e contano pochi rapporti col territorio e molti rapporti con i centri di ricerca. La sfida sarà riuscire a radicare sul territorio queste aziende, per attivare reti di subfornitura e diffondere i benefici». Un primo tentativo in questo senso si è già visto, con la decisione della Regione Toscana di destinare risorse pubbliche non solo alle Pmi, come avveniva in passato, ma anche alla media e grande industria che si allea con piccoli operatori locali.

Istituto Regionale Programmazione Economica della Toscana (Irpet)

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