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Questo articolo è stato pubblicato il 05 marzo 2013 alle ore 19:05.

«Export? Ma no – ci spiega paziente Antonella Devizzi – siamo troppo piccoli e con l'estero non siamo in grado di lavorare, meno male che ci sono loro». La titolare della piccola azienda meccanica, dieci addetti e 1,6 milioni di ricavi, indica lo stand di fronte, quello della Delta Calor, 70 dipendenti e 16 milioni di ricavi, per l'80% realizzati con l'export. La prossimità alla fiera di Erba "Fornitore Offresi" per le due aziende lecchesi si accompagna alla vicinanza geografica, con la "piccola" che realizza per la "grande" lavorazioni di tornitura.
L'episodio lecchese è in realtà la sintesi del problema italiano, con aziende mediamente di dimensioni troppo ridotte per competere, soprattutto in chiave internazionale. Situazione che diventa più grave con il passare del tempo, perché è sempre più chiaro che limitarsi alle vendite in Europa non è più sufficiente, in una fase in cui i tassi di crescita maggiori sono nelle economie più remote mentre la zona euro è alle prese con politiche restrittive, investimenti ridotti, crescita della disoccupazione e domanda in caduta. Scenario che si sintetizza plasticamente nei risultati 2012 del nostro export, al palo rispetto all'Europa ma in crescita di quasi dieci punti nei paesi extra-Ue, arrivando al massimo storico di 180 miliardi di euro e capace di sprintare ancora di quasi il 18% a gennaio.
La necessità di avere aziende forti e strutturate per competere su base internazionale, evidente sul piano logico, è certificata in modo chiaro dai dati Istat che confermano in maniera oggettiva il legame tra internazionalizzazione delle imprese, loro dimensioni e performance realizzate. L'analisi dei risultati delle esportazioni tra 2010 e 2012 evidenzia infatti che i numeri migliorano sensibilmente all'aumentare delle dimensioni aziendali, con il 42% delle microimprese che ha incrementato i ricavi esteri nell'ultimo biennio a fronte di un 64,4% per le imprese più grandi. Situazione simile nell'aumento della numerosità dei mercati di sbocco, realizzato nel biennio da meno del 60% delle imprese di minori dimensioni, percentuale che lievita oltre quota 80 per i gruppi maggiori. Crescita che inoltre si realizza in modo più massiccio in Europa per le imprese "bonsai", mentre le realtà più strutturate riescono a svilupparsi anche nei paesi extra-Ue.
Altro elemento determinante per la performance aziendale è la strategia di internazionalizzazione seguita, variabile tra un impegno "minimo" (solo export) e una strategia più impegnativa (aziende controllate da multinazionali, aziende italiane con controllate estere, aziende globali, cioè che vendono in almeno cinque paesi extra-Ue). L'analisi Istat evidenzia in generale una relazione diretta tra produttività e dimensioni, con una crescita del valore aggiunto per addetto all'aumentare della stazza aziendale. Ma anche all'interno di ciascuna classe dimensionale questo valore è via via più elevato nel passaggio dalle forme di internazionalizzazione più blande a quelle più evolute, ed è comunque più alto in generale per chi esporta rispetto a chi è solo presente sul mercato interno.
Determinante, sulla strada dei mercati esteri, è però per le imprese l'appoggio del sistema creditizio e infatti, secondo l'Istat, quasi il 50% delle aziende manifatturiere ritiene che un'espansione dei ricavi oltreconfine richiederebbe ulteriori misure di garanzia o agevolazione del credito all'export. Se le dimensioni d'impresa sono la precondizione per competere oltreconfine, le aziende possono giocare ad armi pari solo in presenza di sostegni finanziari e aiuti all'export. Merce rara il credito di questi tempi, e anche costosa guardando le ultime rilevazioni di Bankitalia.
Va detto però che la stretta creditizia, costata in un anno 30 miliardi di euro, non è stata affatto omogenea e il settore dei beni strumentali, guarda caso quello a più elevata esposizione internazionale, non ha ricevuto alcuna restrizione delle somme erogate nell'arco del 2012. Il nodo però è rappresentato dai costi e infatti, in un sondaggio realizzato dall'Ice per Federmacchine tra 342 imprese statunitensi, solo il 3% afferma di aver scelto un bene strumentale italiano per le condizioni finanziarie vantaggiose. E qui è evidente il prezzo pagato dall'Italia in termini di differenziale di spread, dove tutto ciò che è finanziato da istituti di credito nazionali ha mediamente costi più elevati rispetto alla concorrenza straniera, tedesca in primis. A dicembre i tassi medi per le nuove operazioni sono stati pari al 3,65%, in crescita per il quarto mese consecutivo, con picchi del 5,65% per le operazioni di oltre cinque anni.
Un esempio del nostro gap è visibile nell'ultimo episodio capitato a Same Deutz-Fahr, produttore di macchine agricole da 1,2 miliardi di ricavi con stabilimenti, tra l'altro, in Italia e Germania. Il gruppo bergamasco, per un finanziamento di 20 milioni a cinque anni ha pagato a Berlino il 2% mentre per un'operazione analoga in Italia il costo è salito al 5%. Anche le banche italiane hanno capito però che le chance maggiori di sopravvivenza e di sviluppo si concentrano in particolare tra le aziende esposte ai mercati internazionali, visti come unica area positiva anche dall'ultima previsione di Unioncamere sul primo trimestre 2013, a fronte di produzione e fatturato ancora in frenata.
Ed è dunque proprio oltreconfine che si sviluppano le ultime iniziative dei due maggiori istituti italiani. Intesa SanPaolo e la Piccola Industria di Confindustria hanno infatti appena siglato un accordo che prevede un plafond di dieci miliardi di euro dedicato a tre aree di intervento: sviluppo dimensionale, nuova imprenditoria ed export. Tra gli strumenti previsti si offre la possibilità di assicurare il credito proteggendo dal rischio di insolvenza fino al 100% dell'importo. Sforzi maggiori sui mercati esteri anche per Unicredit, che oltre ad avere creato un conto ad hoc per le Pmi che esportano ha rafforzato i legami con la filiera dei beni strumentali, settore arrivato ad esportare quasi l'80% dei propri ricavi, in particolare nei mercati più remoti. «Ho aperto una filiale in Brasile – spiega l'imprenditore Piemontese Riccardo Cavanna – incontrando livelli di professionalità molto diversi tra i nostri istituti. E quando si va così lontano, avere la banca dalla tua parte è fondamentale».
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