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Questo articolo è stato pubblicato il 20 luglio 2014 alle ore 08:13.

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«L'Europa ha perso il senso del tragico». Così si esprimeva con amarezza Jacques Delors di fronte alla tragedia che si stava consumando nella ex-Jugoslavia nei primi anni '90.
Quel senso del tragico che sembrava essersi impresso a fuoco sulla pelle dell'Europa dopo le immani tragedie delle due guerre mondali, ci ammoniva l'allora presidente della Commissione europea, rischiava di smarrirsi nelle enclave etniche dei Balcani e nell'impotenza delle grandi potenze. Più recentemente un altro presidente di Commissione Ue, Romano Prodi, oggi alla guida della Commissione Onu per l'Africa, ci ha ricordato quanto sia importante per l'Europa, e fondamentale per l'Italia, guardare a Sud in termini strategici sia sotto il profilo geopolitico sia geoeconomico, ma anche, e forse innanzitutto, umanitario. A questo proposito è giusto ricordare anche l'appello al Parlamento europeo in vista del semestre italiano di presidenza, appena lanciato da Barbara Spinelli per una «strategia europea in materia di migrazione e asilo», nel quale si ricorda che il numero di profughi richiedenti asilo e sfollati interni ha superato oggi i 50 milioni di persone, come rilevato dal rapporto dell'Alto Commissariato dell'Onu per i rifugiati (Unhcr), il dato più alto dalla fine del dominio nazi-fascista in Europa. Ruth Klüger, scrittrice sopravvissuta ad Auschwitz, ci ricorda come la sua sia stata una «generazione di rifugiati che si è spostata nel mondo come mai prima di allora» in cui «la fuga è diventata l'espressione del mio mondo e del periodo nel quale sono vissuta». La fuga e il ritorno della figura dell'apolide evocata da Walter Benjamin e il drammatico macroscenario europeo interrogano anche i microcosmi.
A Milano tra il 18 ottobre del 2013 e il 2 luglio 2014 sono stati accolti 11.244 cittadini siriani, dei quali 3.250 bambini, in fuga dalla guerra civile. Sono dati che ricavo da un pamphlet di inchiesta e racconto partecipato, curato da Pierfrancesco Majorino e Caterina Sarfatti, di rara potenza interrogante sin dal titolo "Milano come Lampedusa?" e dalla copertina che riproduce, a proposito di apolidi, un passaporto. Si tratta di un pamphlet di denuncia che scava nel disagio di una città come Milano e racconta il suo isolamento istituzionale nell'affrontare l'emergenza profughi. Avevo peraltro avuto sentore di questa difficoltà della città proprio andando con lo stesso Majorino, assessore comunale alle Politiche sociali, per quartieri a ragionare di integrazione dei migranti, quando a Quarto Oggiaro la presidente del Centro Aldini denunciava sommessamente quanto fosse stato faticoso, ancorché umanamente necessario, ospitare centinaia di profughi in una struttura pensata per la socialità degli anziani del quartiere. Ma tant'è, questo avveniva nella cosiddetta periferia di Quarto Oggiaro, mentre in centro serpeggia di nuovo la voglia di ronde contro i profughi.
L'avere accettato di farsi carico, cioè di assumere responsabilità, per il destino dell'uomo in fuga dalla guerra, costa fatica. Lo sanno bene tutte quelle associazioni che hanno dato una mano al Comune recandosi alla stazione centrale di Milano o accogliendo temporaneamente gli invisibili. Del resto, come apprendo proseguendo nella lettura del testo, le regole europee «di Dublino» favoriscono l'invisibilità. Se è vero che il primo Paese che "identifica" il profugo è anche quello che deve occuparsene in termini di asilo ecco allora che è meglio non identificare, così non siamo costretti a preoccuparcene, anzi lasciamo "libertà" di continuare la fuga in qualche altro stato disposto al riconoscimento. Nel frattempo rimani invisibile e quindi affidato alle tue reti, se va bene, al caso o peggio alla criminalità organizzata, se va male.
Questo destino di invisibilità frutto di una politica che ha perso il senso del tragico, è un po' lo stesso vissuto dai tanti che hanno provato ad attraversare il Mediterraneo con i barconi. D'altra parte, per chi ha memoria, è dai tempi dell'assassinio di Jerry Masslo avvenuto nel 1989 nei dintorni di Villa Literno che non viene organizzata una Conferenza nazionale sull'immigrazione. Quella morte divenne all'epoca il simbolo del diritto allo status di rifugiato, riconosciuto poco dopo dalla Legge Martelli del 1990. All'epoca gli immigrati in Italia erano 600mila, oggi sono all'incirca 4,5 milioni. In mezzo, sono passati quasi 25 anni nei quali siamo passati da diverse normative sull'immigrazione, senza che queste siano riuscite ad evitare il formarsi di territori perduti della Repubblica. Ce lo ha ricordato di recente anche quanto accaduto a Pescopagano, frazione di Castel Volturno, comune del Casertano di poco più di 23mila abitanti, che conta 3.400 residenti stranieri ufficiali e sino a dieci volte tanti stranieri irregolari.
E se dalle parti di Castel Volturno e Villa Literno il tempo non sembra passare è forse giunto il momento di lanciare una nuova grande conferenza nazionale sull'immigrazione che affronti con una nuova coscienza e nuovi strumenti il processo migratorio. Potrebbe essere questo un luogo per interrogare anche la debole Europa dell'euro che sembra essere diventata membro dell'internazionale dell'indifferenza quando si tratta di migrazioni. In attesa che le istituzioni nazionali e transnazionali affrontino il tema sul piano politico si provveda almeno dal punto di vista umanitario. Da questo punto di vista la creazione di corridoi umanitari legali tra Europa e Africa cui fa riferimento l'appello di Spinelli è assolutamente necessaria, così come la costituzione di una rete di città europee attrezzate per l'accoglienza, come proposto nel recente documento "Call di Barcellona" nel quale si delinea quella che deve essere una multi-governance tra comuni, governi e organizzazioni europee e internazionali come ricordato da Sarfatti, che al Comune di Milano si occupa di Relazioni internazionali e Politiche comunitarie. Sono, queste, proposte minime in attesa che l'Europa torni ad avere coscienza del tragico e fare qualcosa non solo nel Mediterraneo, territorio perduto dell'Europa, ma volgendo lo sguardo a Est dove in un altro pezzo d'Europa si è riaffacciato il mostro della guerra.

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